E se adesso fosse il Medio Oriente a salvarci dall’inflazione regalandoci qualche taglio dei tassi in più?

Il Medio Oriente è una polveriera, ma il cambio di strategia dell'Arabia Saudita sul petrolio può abbattere più velocemente l'inflazione.
2 settimane fa
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Dal Medio Oriente buone notizie per l'inflazione?
Dal Medio Oriente buone notizie per l'inflazione? © Licenza Creative Commons

Il dato sull’inflazione di oggi nell’Eurozona confermerà o meno la previsione del mercato, secondo cui la Banca Centrale Europea (BCE) anche ad ottobre abbasserà il costo del denaro. A settembre la crescita tendenziale dei prezzi al consumo è stata dell’1,5% in Spagna e dell’1,2% in Francia, stando ai dati preliminari. Entrambi i valori risultano scesi rispetto alle rilevazioni di agosto e sotto il target del 2%. E finalmente iniziano ad arrivare notizie possibilmente positive dal Medio Oriente sul fronte inflazione.

Le tensioni nell’area non si stanno affatto allentando. Anzi, tra Israele e Libano è ormai guerra aperta e c’è il rischio che il conflitto si allarghi, anziché risolversi.

Prezzo del petrolio in forte calo
Prezzo del petrolio in forte calo © Licenza Creative Commons

In Medio Oriente nuovi giochi geopolitici

Tuttavia, avrete notato che il prezzo del petrolio stia scendendo nelle ultime settimane con riflessi positivi sul prezzo del carburante alla pompa. Se agli inizi dell’estate sembrava tornato lo spauracchio dei 2 euro al litro, adesso la benzina ha già ripiegato in area 1,70 euro. Il Brent è sceso del 19% dai massimi nei primi di luglio, perdendo intorno ai 17 dollari al litro e scivolando ai minimi da tre anni a questa parte finanche sotto i 70 dollari. Un tracollo che si spiega certamente con le condizioni economiche globali tutt’altro che esaltanti, ma c’è lo zampino dei giochi di potere in Medio Oriente.

Questa settimana, il Financial Times ha pubblicato la notizia che l’Arabia Saudita starebbe meditando un cambio di strategia per il mercato petrolifero. Il regno è leader de facto dell’Opec, il cartello che riunisce una dozzina di esportatori di greggio e che collabora con una decina di paesi esterni, tra cui la Russia. Da quando la pandemia fece schiantare le quotazioni internazionali nel 2020, il principe Mohammed bin Salman ha perseguito prima l’obiettivo di sostenerle dagli abissi a cui erano sprofondati e successivamente di farle tendere a 100 dollari al barile.

Boom petrolio con fine pandemia

Agli inizi del 2022, in coincidenza sia con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, sia con la ripresa della domanda mondiale dopo i “lockdown”, le quotazioni esplosero fin sopra i 120 dollari. Esse contribuirono in misura determinante a surriscaldare l’inflazione in Europa e Nord America ai massimi dagli anni Ottanta. Dopodiché abbiamo assistito a un ripiegamento, ma i prezzi sono rimasti alti se consideriamo la debole domanda globale. I sauditi hanno impedito all’offerta dell’Opec di adeguarsi alle mutate condizioni del mercato, addossandosi su base volontaria tagli all’offerta e concordandone di altri con i partner del cartello. Ha funzionato.

Nei tre anni e mezzo al 30 giugno scorso, la compagnia petrolifera statale saudita Aramco ha maturato profitti monstre per poco meno di 450 miliardi di dollari. Nello stesso periodo di tempo, il fondo sovrano PIF ha aumentato gli asset gestiti di 400 miliardi a 925 miliardi (dato al 31 luglio 2024). In pratica, il principe ereditario ha espanso il suo potere economico ammassando centinaia di miliardi di profitti derivanti dalle esportazioni di petrolio a prezzi alti. Perché cambiare, allora? Il punto è che nel Medio Oriente si sta rafforzando anche un’altra potenza: l’Iran. E’ l’arci-nemico di Riad, malgrado i tentativi di riappacificazione di questi ultimissimi anni.

Agenda anti-israeliana per Iran

L’Iran è formalmente sotto embargo dall’Occidente per il suo programma nucleare di arricchimento dell’uranio. Le sanzioni erano state sospese dagli Stati Uniti sin da inizio 2016 e riattivate dall’amministrazione Trump nel 2018. Ma Teheran si fa beffa dei divieti, vendendo il suo greggio sotto mentite spoglie via mare a potenze complici e affamate di energia come la Cina. Le sue estrazioni sono salite a una media di 3,2 milioni di barili al giorno, ai massimi dal 2018.

Le esportazioni viaggiano intorno a 1,5 milioni di barili al giorno, record dal 2017.

In Medio Oriente l’Iran è protagonista vivace e temuto. Si avvale di stati satellite come Siria e Libano per portare avanti la sua agenda anti-israeliana, usando forze paramilitari come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano. Le alte quotazioni del petrolio stanno avvantaggiando anche lo stato iraniano. In pratica, i sauditi stanno accorgendosi di fare un favore al loro nemico con una politica di sostegno ai prezzi internazionali. Abbassarli comporterà certamente un problema per le casse del regno, ancora in larga parte dipendenti dalle entrate petrolifere. Ma nulla che possa essere paragonato ai danni che infliggerebbe alle disastrate finanze della Repubblica Islamica.

Tattica alla Reagan per Arabia Saudita?

Secondo S&P, nel 2024 quest’ultima ha bisogno di quotazioni petrolifere a 112 dollari al barile per avere un bilancio statale in pareggio. All’Arabia Saudita basterebbero per il Fondo Monetario Internazionale 81 dollari. La differenza è che il regno dispone di centinaia di miliardi tra riserve e fondo sovrano, senza contare che può vendere una nuova quota marginale di Aramco e incassare decine di miliardi in un solo colpo. Invece, l’Iran dell’ayatollah Khamenei è tagliata fuori dai mercati e da molti anni non riesce a fronteggiare una grave crisi della sua economia.

Sembra di ricordare la tattica usata dall’allora presidente americano Ronald Reagan contro “l’impero del male”, cioè l’Unione Sovietica agli inizi degli anni Novanta. L’ex attore hollywoodiano intraprese una corsa al riarmo puntando sul programma noto come “guerre stellari”. Il suo obiettivo era duplice: aumentare la sicurezza degli Stati Uniti e degli alleati contro la minaccia comunista e indurre Mosca a seguirlo sulla strada del riarmo, consapevole che le sue finanze sarebbero prima o poi collassate. Ai suoi ammise: “noi faremo qualche sacrificio, ma porteremo i sovietici al fallimento”. Vinse la scommessa. Mikhail Gorbacev firmò la tregua nucleare e poco dopo l’Urss si disgregò insieme ai suoi stati satellite dell’Est Europa.

Petrolio giù, impatto positivo su inflazione e tassi

Se la presunta nuova strategia del principe saudita funzionasse, l’Iran si ritroverebbe in breve tempo con minori risorse da spendere a sostegno della lotta anti-israeliana nel Medio Oriente. Ogni dollaro in meno fissato sui mercati per il greggio equivale ad oltre mezzo miliardo all’anno incassato con le esportazioni. E questo per l’economia domestica si traduce in un calo delle riserve, riduzione delle importazioni, carenza di offerta, possibile necessità di svalutare il cambio e inflazione ancora più alle stelle. Già oggi la popolazione non si capacita come il regime possa spendere fior di miliardi per continue campagne militari, quando l’economia domestica soffre.

Vedremo se questo porterebbe a una distensione in Medio Oriente per effetto delle minori possibilità per l’Iran di proseguire la sua politica bellicistica. Per noi economie importatrici sarebbe una buona notizia, perché accelererebbe la caduta dell’inflazione, farebbe svanire quelle incertezze che ancora aleggiano nelle previsioni ufficiali delle banche centrali e spingerebbe queste ultime a tagliare i tassi di interesse più in fretta e con maggiore convinzione. Ne trarrebbero beneficio i consumi delle famiglie, gli investimenti delle imprese e i bilanci statali. Infatti, i debiti costerebbero per tutti di meno, dando sollievo alla domanda aggregata.

Medio Oriente si prepara a possibile presidenza Trump?

C’è altresì la sensazione che la nuova strategia saudita sia un modo per Riad di anticipare la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane. Il tycoon è favorevole al potenziamento delle estrazioni di “shale” in patria, al fine di tendere definitivamente all’indipendenza energetica della superpotenza. Maggiore offerta negli States equivarrebbe a soffiare mercati di sbocco ai sauditi, principali esportatori nel mondo, specialmente nella promettente Asia. Abbassando i prezzi prima che ciò possa accadere, il regno riduce la convenienza per l’industria a stelle e strisce ad aumentare le estrazioni. Prenderebbe due piccioni con una fava.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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