Siamo sicuri che sia l’inflazione la grande paura dei mercati finanziari? Questa settimana, l’oro ha segnato l’ennesimo record ad una quotazione di poco inferiore ai 3.500 dollari l’oncia. Il rialzo da inizio anno è arrivato fino al 33%. I dazi annunciati dal presidente americano Donald Trump ad inizio aprile hanno scombussolato il mondo. Le borse sono crollate e lo stesso mercato obbligazionario a stelle e strisce ha accusato il colpo, contrariamente alle previsioni. Nel frattempo, il dollaro ha perso il 10% contro le altre principali valute dai massimi di gennaio.
Paura per inflazione con dazi e fine globalizzazione
I dazi sono un cambio di paradigma evidente dopo almeno 30 anni di globalizzazione.
I commerci si restringono, il mondo si chiude. La produzione sarà in futuro più vicina ai mercati di sbocco e per questo costerà di più. Insomma, c’è paura che l’inflazione torni non come fiammata passeggera, bensì in maniera strutturale. Ciò spiegherebbe i continui boom dell’oro, bene rifugio per eccellenza. Tuttavia, i numeri hanno la testa dura e dalla loro analisi non si può prescindere per cercare di capire la realtà dei fatti.
Se i mercati temessero l’inflazione, i rendimenti obbligazionari dovrebbero salire insieme alle aspettative sui tassi di interesse. Le borse dovrebbero salire anch’esse, dato che l’aumento dei prezzi al consumo tende a beneficiare i profitti. Ma in questo caso sarebbe concessa un’eccezione, in quanto saremmo dinnanzi a un’inflazione da costi, che rischia di mettere sotto pressione i margini. Lo stesso fatturato di molte imprese votate all’export ne risentirebbe con la guerra dei dazi.
Aspettative d’inflazione giù
Cosa dicono i dati? Le aspettative d’inflazione negli Stati Uniti sono diminuite, non aumentate nelle ultime settimane. Dai massimi di febbraio, quando Trump iniziava a minacciare, imporre e revocare i dazi, risultano scese fino a un massimo dello 0,40%, anche se risalite nelle ultime sedute. E’ quanto emerge dal breakeven a 5 anni tra Treasury con cedola fissa e TIPS.
Per quanto i rendimenti dei Treasuries abbiano destato scalpore, risalendo anche velocemente in determinate sedute, il trend rimane calante rispetto a gennaio e febbraio. Dalle prime mosse sui dazi il decennale americano registra un -0,30%. E la scadenza a 2 anni segna un ribasso dello 0,50%. E questo dice che i mercati non abbiano paura dell’inflazione, altrimenti avrebbero preteso rendimenti più alti per il tratto lungo della curva. Al contrario, si accontentano di rendimenti più bassi anche per le scadenze più breve, segno che stiano scontando un taglio dei tassi di interesse. In effetti, è proprio così. Mentre all’inizio dell’anno l’attesa era per appena un solo o alcuno taglio, adesso è per 3-4 tagli dello 0,25% ciascuno.
Tassi attesi in calo
Ma i tassi si tagliano quando l’inflazione scende, non quando sale. Ergo, al netto delle tensioni tra Casa Bianca e Federal Reserve, gli investitori riterrebbero che ci sarà meno inflazione nei prossimi mesi, non di più. E malgrado il dollaro debole. Questa è la vera incognita di queste settimane. Perché gli investitori si liberano dei dollari per acquistare euro, yen, sterline, franchi svizzeri, oro, ecc.? Evidentemente, credono che l’economia americana stia dirigendosi verso la recessione.
E guardate che i dazi possono essere stati il pretesto per vendere dopo anni di abbuffate a Wall Street.
Tutto sommato, la borsa americana cede un ottavo del suo valore dai massimi storici di febbraio. Sembra che il mercato abbia deciso di razionalizzare finalmente rispetto alle valutazioni stellari di questi anni. Ancora oggi, le azioni USA quotano a quasi 27 volte gli utili contro un multiplo di 19 per le grandi borse europee (13,50 in Italia). Valevano oltre 30 volte i profitti annuali a febbraio. Più che paura per l’inflazione, gli investitori starebbero approfittando del caos dazi per riposizionare i portafogli in favore di asset più a buon mercato.
Paura per debito più che inflazione
E poi c’è l’elefante nella cristalleria: il debito pubblico americano. Superava i 36.000 miliardi di dollari a inizio anno, di cui oltre 9.000 miliardi da rifinanziare quest’anno e altri 2.000 miliardi da emettere per finanziare il deficit fiscale. Vale oltre il 120% del Pil USA. Finora, Washington non ha avuto problemi di sorta. Tutti nel mondo acquistano i suoi titoli del debito per detenere dollari in forma semi-liquida e venendo pure pagati. Con quali soldi? Quelli guadagnati esportando negli stessi USA. In pratica, gli americani comprando dagli altri merci e servizi, mentre gli altri riportano nelle loro tasche i proventi sotto forma di investimenti finanziari.
Trump sta spezzando questo circolo virtuoso e vizioso allo stesso tempo. Con i dazi pone fine allo scambio merci-investimenti e mette a repentaglio la tenuta del debito americano. Certe tensioni di queste settimane sul mercato dei Treasuries sarebbero legate a questo fattore, più che alla paura per l’inflazione. Per quanto riguarda più concretamente noi europei, poi, lo scenario più probabile sarebbe quello opposto della deflazione, nel caso in cui la Cina dirottasse nel Vecchio Continente le merci non esportabili più negli USA.
giuseppe.timpone@investireoggi.it
L’articolo chiarisce un aspetto poco sottolineato: in questo scenario si sta apprezzando una valuta super partes non manipolabile dagli stati: l’oro.
Il titolo lo modificherei in “Non è dell’inflazione che i mercati hanno paura”