C’era una volta la “scala mobile”, che oggi parte del sindacato rimpiange, salvo siglare rinnovi contrattuali da terzo mondo. E per uno strano scherzo del destino c’è la possibilità che torni, niente di meno che sotto un governo di centro-destra. A proporla è la Lega, pur tra smentite e precisazioni. Gli alleati di Fratelli d’Italia, partito della premier Giorgia Meloni, hanno già fatto sapere di essere contrari a questa proposta, così come al ritorno alle “gabbie salariali”.
Scala mobile, cos’era
Partiamo dall’inizio. L’Italia ha un problema gigantesco di bassi salari. Siamo l’unica economia nell’OCSE in cui le retribuzioni orarie sono diminuite tra il 1990 e il 2020 in termini reali.
E pur essendoci stato un recupero dallo scorso anno, con la pandemia le cose sono persino peggiorate, poiché l’inflazione è salita alle stelle e la crescita dei salari è stata molto più contenuta. La politica giustamente s’interroga sulla necessità di salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie. Oggi, sembra che il problema principale non sia più trovare un lavoro, quanto di poter vivere dignitosamente lavorando.
La “scala mobile” fu un’invenzione di Confindustria in accordo con i sindacati nel 1975. I salari dei lavoratori sarebbero cresciuti in linea con l’inflazione attraverso i famigerati “punti di contingenza”. Erano gli anni in cui i prezzi esplodevano di mese in mese per effetto della crisi petrolifera. Il meccanismo sembrò salvaguardare i redditi fissi, ma finì con il devastarli, procrastinando l’alta inflazione. Con il decreto di San Valentino, il governo Craxi depotenziò la scala mobile nel 1984. La CGIL puntò sul referendum abrogativo del 1985 per difendere il meccanismo, ma uscì sconfitta.
Rinnovi contrattuali tardivi
Ciò che propone la Lega non è esattamente quella roba lì. Il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, ha fatto chiarezza sul punto. Si tratterebbe di prendere atto dei ritardi con cui si arriva ai rinnovi contrattuali. Funziona che sindacati e imprese si mettano d’accordo anche dopo anni che il contratto è scaduto. Nel frattempo, il lavoratore riceve la stessa identica retribuzione, perdendo potere d’acquisto per via dell’inflazione. Quando si arriva alla firma, il più delle volte le parti si accordano per l’erogazione di una sorta di “una tantum”, a parziale indennizzo della perdita accusata.
Nella proposta della Lega, ogni anno i salari verrebbero adeguati automaticamente all’inflazione. Non del tutto. Ci sarebbe un adeguamento parziale: se l’inflazione è pari o superiore al 3%, sarebbe massimo del 2%; proporzionalmente inferiore con un’inflazione più bassa. Questo aumento sarebbe una sorta di anticipo nell’attesa dei rinnovi contrattuali. Ma non per tutti in egual misura. La Lega punta a fare riferimento all’indice IPCA, già utilizzato nel contratto dei metalmeccanici. In pratica, l’inflazione a cui si farebbe riferimento sarebbe quella della regione o della città in cui si trovano l’impresa e i lavoratori. Durigon parla a tale proposito anche di differenziazione in termini di defiscalizzazione del welfare e dei fringe benefits.
Gabbie salariali, no di FDI
Qual è la logica sottostante? I salari non valgono dappertutto in egual misura. Percepire 1.500 euro a Milano è assai diverso che a Crotone. Bisogna agganciare le retribuzioni all’aumento del costo della vita effettivo del luogo in cui si trova il lavoratore. Il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Walter Rizzetto (FDI), non è d’accordo. Ritiene che non sia opportuno tornare alla logica delle “gabbie salariali”, abolite negli anni Settanta. Né che si debba reintrodurre un meccanismo simile a quello della scala mobile di mezzo secolo fa.
Decontribuzione e flat tax per under 30
La Lega propone anche una “flat tax” del 5% per i lavoratori assunti di età fino a 30 anni e retribuzioni fino a 40.000 euro e la totale decontribuzione garantita alle imprese per i primi 3 anni. Un modo per incentivare le assunzioni di giovani, il cui tasso di occupazione resta bassissimo nel confronto europeo. Forse sul punto un accordo nella maggioranza è più probabile, anche se si apre il capitolo spinoso delle risorse. Forza Italia punta a ridurre l’IRPEF sul ceto medio, un obiettivo che per il sottosegretario all’Economia, Federico Freni, anch’egli della Lega, non sarebbe incompatibile con quello del suo partito.
Scala mobile falsa soluzione a grave problema salariale
Finite le celebrazioni retoriche per il Primo Maggio, resta il problema di un’economia con salari troppo bassi per sperare di puntare sulla domanda interna in tempi di dazi. La scala mobile rievoca brutti ricordi, mentre il tema vero è rilanciare la crescita della produttività, che da decenni è stagnante e “congela” le paghe dei lavoratori. La politica può fare la sua parte con riforme strutturali che agevolino la produzione di ricchezza e riducano i costi a carico delle imprese. C’è la questione dell’elevatissimo cuneo fiscale a rilevare: l’impresa paga tanto, ma al lavoratore arriva poco tra imposte e contributi versati allo stato. Ma anche le piccole dimensioni medie delle imprese fanno tanto: investono poco nell’innovazione e puntano su produzioni povere, cioè proprio sui bassi salari per poter restare sul mercato.
“Il meccanismo sembrò salvaguardare i redditi fissi, ma finì con il devastarli, procrastinando l’alta inflazione” Che la scala mobile fece aumentare ulteriormente l’inflazione è una grossa balla raccontata da certi “economisti” di parte.