Nel mondo, esistono 10.000 miliardi di dollari di obbligazioni dai rendimenti negativi. I toni sempre più accomodanti di Federal Reserve e BCE hanno aumentato questa massa di titoli di circa il 50% in appena 5 mesi. I soli bond governativi dell’Eurozona con rendimenti sottozero valgono circa 3.600 miliardi di euro, quasi la metà del totale. Sappiamo già che i rendimenti negativi implicano perdite certe alla scadenza, perché sostanzialmente vengono acquistati a prezzi superiori a quelli di rimborso, pur tenendo conto del flusso cedolare.

L’unica ragione seria per acquistarli sarebbe di confidare in un rialzo ulteriore del loro valore, vuoi per le aspettative ancora più “bullish” del mercato, vuoi anche per l’effetto cambio, nel caso in cui l’investitore fosse straniero e puntasse a un rafforzamento della valuta in cui tali titoli sono denominati contro la propria.

Bond: scarsa liquidità solo accentuato allargamento spread

C’è un altro rischio a cui si guarda poco, ma che gli operatori sui mercati finanziari da tempo ritengono essere forse quello principale a cui si andrà incontro in misura crescente nel prossimo futuro: di liquidità. Quando acquistiamo un titolo finanziario, sia esso un’azione, un’obbligazione, un derivato, etc., pensiamo che possiamo rivenderlo quando lo desideriamo, ai prezzi vigenti in quel momento sul mercato. Non è sempre così. I mercati azionari e quelli valutari sono tipicamente molto liquidi. I secondi, ad esempio, assistono a scambi quotidiani per la media di 5.100 miliardi di dollari ogni giorno. Un flusso immenso di denaro, frutto di milioni di operazioni in tutto il mondo, che eppure non ha impedito negli ultimi tempi il verificarsi sempre più frequente di eventi di “flash crash”.

Parliamo di quei crolli improvvisi a cui una valuta è soggetta (è capitato più di una volta alla sterlina, ad esempio. ma anche alla stessa Wall Street lo scorso anno) e senza una qualche particolare ragione.

Alla base di tali eventi si è detto esservi, in qualche caso, la sindrome dei “fat fingers”, le dita pesanti di un qualche operatore, che per la stanchezza o per errore avrebbe digitato il tasto sbagliato, immettendo ordini giganteschi di vendita, facendo crollare il tasso di cambio di una valuta contro un’altra. In realtà, guardando agli orari in cui tali crolli avvengono quasi sempre, si capisce che il problema reale sia un altro: la scarsa liquidità del mercato in alcune fasce orarie, quando gli scambi diventano rarefatti, perché magari per una grossa parte del mondo è notte e negli uffici a fare trading rimangono i robot, non gli umani in carne e ossa. E poiché questi ultimi sono soliti impostare livelli di “stop loss”, toccati i quali le posizioni vengono chiuse automaticamente, può capitare che in un solo colpo più operazioni di vendita vengano registrate e ciò, in un mercato momentaneamente poco liquido, dia vita a un crash.

La regolamentazione strangola la liquidità

Fosse solo un problema di fasce orarie, tutto sommato non vi sarebbe alcun allarme specifico, sebbene il mondo del trading non la pensi proprio così. Il punto è che il mercato può rischiare di essere strutturalmente poco liquido e questo provocherebbe grossi mal di testa, nel caso in cui si avesse l’esigenza di vendere o di acquistare. Il tema riguarda essenzialmente le obbligazioni, specie quelle con rating più bassi. Di titoli “investment grade” monitorati da Bloomberg nel mondo ve ne sono per un controvalore di 52.000 miliardi di dollari. Essi hanno una “duration” media di 7 anni. Ciò significa che all’aumentare/diminuire dei rendimenti dell’1%, i prezzi scenderebbero/salirebbero del 7%. A questo punto, basterebbe il rialzo di appena lo 0,5% medio per esitare un crollo di valore per questi bond nell’ordine di 1.800 miliardi.

Per investire in bond conta la cedola, non solo il rendimento

Sin qui, ancora nulla che non fosse noto.

Il guaio è che non è detto che i titolari di questi bond avranno modo di venderli tempestivamente per cercare di minimizzare le perdite. Negli ultimi anni, la regolamentazione è diventata più stringente sui mercati. Di recente, ad esempio, la UE ha approvato la cosiddetta Mifid II, che tanti costi sta infliggendo agli operatori. Il tentativo di queste normative sarebbe in sé nobile, ossia limitare i rischi a carico degli investitori, riducendo il peso delle istituzioni finanziarie nel trading giornaliero, così da evitare il ripetersi di una nuova crisi finanziaria come nel 2008. Tuttavia, esse sono pure i “market maker”, coloro che con i loro ingenti ordini di acquisto/vendita sono capaci di fissare i prezzi e sostanzialmente di imprimere una direzione al mercato.

Che cosa succede alle obbligazioni nelle fasi di trend positive o negative? Nel corso delle prime, in previsione di ulteriori rialzi, i possessori si mostrano riluttanti a vendere e ciò determina l’allargamento dello spread “ask-bid”o anche detto in italiano “denaro-lettera”, ossia della differenza tra il prezzo massimo a cui un acquirente è disposto a comprare e quello minimo che un offerente è disposto ad accettare per vendere. Ne consegue che le distanze tra i due lati del mercato si ampliano e gli scambi avvengono a condizioni meno favorevoli per l’acquirente, il quale avrebbe potuto spuntare prezzi più bassi nel caso di presenza di (numerosi) “market maker”. Il peggio accade quando ci si trova nelle fasi ribassiste. A quel punto, tutti vogliono vendere e se non vi sono grossi operatori, può accadere che nessuno si mostri disposto a comprare, con ciò costringendo i primi ad accontentarsi di prezzi anche collassati, se volessero chiudere la posizione subito, altrimenti potrebbero dover attendere a lungo, con tutti i rischi che ciò comporta in una condizione di mercato avversa.

Diversificazione del risparmio (gestito) per sfuggire ai rendimenti negativi

Rischi di liquidità molto alti in futuro

Perché questo accade più con le obbligazioni che non con le azioni? Semplicemente, perché le prime sono molto più segmentate delle seconde.

I bond non sono tutti uguali, ma anche quando risultano emessi dallo stesso soggetto, variando per scadenza, rendimento, cedola, grado di rischio, taglio, rating, etc. Una cosa sarebbe, ad esempio, acquistare un’obbligazione bancaria garantita ed emessa dall’istituto X, un’altra acquistare una sua obbligazione subordinata, anche a parità di scadenza. E una cosa sarebbe investire su un biennale, un’altra su un decennale, etc. Questo fa sì che ciascuno specifico bond abbia un mercato relativamente piccolo, caratterizzato potenzialmente da pochi scambi. Il fenomeno ha a che vedere anche con il taglio di ciascuna emissione: se il Tesoro emette BTp con scadenza gennaio 2025 per un controvalore di 7 miliardi di euro è una cosa, ma se la società Alfa emette un bond settembre 2023 per soli 100 milioni è un’altra. Nel primo caso, anche grazie alla presenza di operatori specializzati, si rivelerà relativamente facile acquistare e vendere all’occorrenza (ma la liquidità è in calo pure per i Treasuries, il mercato considerato più liquido al mondo), nel secondo le cose potrebbero diventare complicate, specie se l’emittente gode di un rating basso e, pertanto, tiene alla larga i grandi operatori.

Stando così le cose, pensare di fare un affarone solo sulla base del rendimento può riservare cattive sorprese. E bisogna ammettere che la situazione attuale spinge a scontare rischi sul fronte della liquidità molto forti, visto che da tempo il mercato obbligazionario sembra una barca su cui i passeggeri stanno seduti quasi tutti su un lato, con il pericolo di rovesciarla. Ancora peggio sarà quando tutti correranno a cambiare sponda, nel tentativo di disfarsi dei titoli, prima che perdano (ulteriormente) valore. A quel punto, complice la presenza sempre più rarefatta di soggetti istituzionali, non resterà nessuno dall’altra parte a voler comprare, se non dopo che i prezzi avranno subito un crollo verticale. E in assenza di vendite e acquisti da far combaciare, è quanto accadrà effettivamente, ai danni degli investitori individuali che pure legislatori e organi di vigilanza dicono di voler tutelare.

Perché l’autismo finanziario dei rendimenti negativi suona l’allarme sulla globalizzazione

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