E’ stata una delle sedute peggiori di sempre per Wall Street quella di ieri, chiusa con un crollo del Dow Jones 4,6%, pari a ben 1.175 punti in meno. Tuttavia, quando in Italia erano passate da poco le ore 21, la borsa americana arrivava a perdere su base giornaliera 1.600 punti. Non era mai accaduto che in una sola seduta l’indice perdesse più di 1.500 punti. E’ successo poche ore fa, anche se bisogna ammettere, in verità, che con il boom dei corsi azionari degli ultimi anni, anche la dimensione assoluta delle perdite tende a crescere nel tempo rispetto al passato.

Comunque sia, in termini percentuali si è verificato il sesto crollo più grande di sempre nella storia del New York Stock Exchange, dopo quelli del 28 ottobre 1929 (-13%), 19 ottobre 1987 (-22,6%), 17 settembre 2001 (7,13%), 29 settembre 2008 (-7%) e 8 agosto 2011 (-5,15%). (Leggi anche: Mercati azionari in calo sui bond, ecco perché a Wall Street (e non solo) prevalgono le vendite)

Tuttavia, la cosa che fa scalpore è che mentre nei precedenti crolli era accaduto un qualche evento negativo, ad eccezione del 1929, quando fu semmai il segnale dell’esplosione della bolla finanziaria, stavolta nulla teoricamente giustificherebbe il “sell-off” generalizzato. Esso è arrivato, a dire il vero, dopo la pubblicazione dei dati sui salari negli USA a gennaio, cresciuti su base annua del 2,9%, la percentuale più alta dalla recessione. Come mai una simile reazione a un dato apparentemente positivo per l’economia americana, tanto che proprio il presidente Donald Trump ha sempre dichiarato che obiettivo della sua politica economica sarebbe proprio il sostegno ai redditi delle famiglie? Il mercato teme essenzialmente due cose: che l’accelerazione della crescita salariale spinga l’inflazione, essendo la disoccupazione scesa ormai al 4% e non disponendo più le imprese americane di forza lavoro sufficiente per reagire con un incremento della produzione alla maggiore domanda; che la crescita dei salari eroda i margini dei profitti aziendali, su cui si basano le valutazioni dei titoli in borsa.

Un’inflazione più alta lascia prevedere tassi d’interesse reali più alti negli USA, ovvero che la Federal Reserve sia costretta ad accelerare la stretta monetaria per perseguire la stabilità dei prezzi. E proprio ieri giurava il nuovo governatore Jerome Powell, che succede a Janet Yellen e che eredità una situazione a dir poco fortunata, anche se non priva di insidie: mercato del lavoro in piena occupazione, inflazione bassa, crescita del pil ai massimi da un decennio e borsa americana intorno ai suoi massimi storici. Powell dovrà cercare di rassicurare i mercati nel mantenere fede al doppio mandato su crescita e inflazione. Il compito sarà arduo, qualora la crescita dei prezzi negli USA dovesse accelerare realmente sopra il 2%.

I segnali in controtendenza

Ad ogni modo, ieri a Wall Street vi è stato un nuovo “flash crash”, uno di quei crolli improvvisi, durato pochi attimi e che ha riguardato anche i Treasuries, anche se per questi ha funzionato al contrario, ovvero facendone schiantare i rendimenti e potenziandone i prezzi. I titoli a 30 anni sono passati in pochi istanti da quasi il 3,10% a un minimo del 2,975%. L’ultimo crollo istantaneo risale al 2010 e allora l’indice azionario arrivò a perdere il 9% in pochi attimi. Le indagini della SEC, la Consob americana, non furono in grado di stabilire cosa avvenne. E’ molto probabile che ieri come allora il tonfo sia stato scatenato dalle vendite realizzate tramite sistemi elettronici, che facendo scattare la chiusura delle posizioni al raggiungimento di prezzi minimi preimpostati (“stop loss”), di fatto amplificando le perdite in corso.

Attenzione a vedere tutto nero, pur in una seduta drammatica. I rendimenti decennali dei Treasuries sono precipitati, infatti, dal 2,84% di venerdì scorso, ai massimi da 4 anni, al 2,70%. Il dollaro ha continuare a rafforzarsi rispetto ai livelli più bassi da oltre 3 anni a cui è arrivato la settimana scorsa, salendo ai massimi da quasi due settimane.

Il cambio euro-dollaro, ad esempio, si è allontanato da 1,25 e ha toccato un minimo di poco superiore a 1,2350. Perché? Semplice. I rendimenti americani sono diventati abbastanza appetibili per non essere notati e dall’estero si sono riversati capitali sui titoli del debito USA, cosa che ha rafforzato temporaneamente anche il cambio. (Leggi anche: Perché il dollaro tornerà a rafforzarsi dopo il “sell off” degli ultimi 3 mesi)

Cosa ci aspetta

Il “sell-off”, tuttavia, non è finito. Il successo dell’economia americana sta creando le condizioni per un ripiegamento delle quotazioni azionarie, alimentate da anni di “easy money”. I tassi saliranno con l’inflazione e ciò non può fare bene alla finanza. Da qui, lo sganciamento con l’economia reale, che sembra andare, invece, nella direzione giusta, con posti di lavoro creati in misura robusta di mese in mese, disoccupazione ai minimi da inizio Millennio e salari che finalmente accelerano. In un certo senso, la correzione in corso risulta persino salutare, considerando che i mercati azionari hanno corso parecchio negli ultimi anni e che nel 2017 la borsa americana ha segnato un rialzo del 27%.

Guardando all’oro, non si direbbe che vi sia alcuna corsa ai beni-rifugio. Le quotazioni del metallo sono salite ieri di un massimo dell’1% e restando al di sotto dei livelli di chiusura di venerdì scorso. Nulla di anomalo, mentre il petrolio ha frenato la sua ascesa, perdendo stamane l’1% e scendendo a 67 dollari per il Brent, quando a febbraio esordiva a una manciata di centesimi dai 70 dollari. La frenata del barile potrebbe sostenere i corsi azionari globali, raffreddando le aspettative d’inflazione e attenuando così i timori sui tassi. Di certo, se la correzione portasse all’arrivo dell’orso, gli effetti si avvertirebbero anche sull’economia reale, tramite il noto”effetto ricchezza”. Ma prima che si arrivi a tanti ve ne corre.

(Leggi anche: Oro, azioni bond e dollaro: a cosa guardare per capirci qualcosa)

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