Il 12 novembre 2011, l’allora premier Silvio Berlusconi varca la soglia di Palazzo Chigi per l’ultima volta. E’ una sera di sabato e dinnanzi a un gruppo di contestatori si reca al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Quattro giorni prima, l’economista ed commissario UE, Mario Monti, veniva nominato senatore a vita dal presidente Giorgio Napolitano, nelle stesse ore in cui il premier in carica gli confermava la volontà di lasciare la guida del governo. Furono momenti drammatici, l’Italia veniva bombardata sui mercati con il famoso “spread BTp-Bund” a 576 punti base nel corso della seduta del 9 novembre.

In quegli stessi giorni, il Tesoro collocava sul mercato BoT a 6 mesi al rendimento record del 6,4%. Le agenzie di rating declassavano il nostro debito pubblico, mentre si vociferava sempre più che l’Italia fosse sull’orlo del “default”. Su quei giorni concitati si è scritto moltissimo, anche all’estero. L’ex premier spagnolo Luis Zapatero racconta in un libro del clima di paura e pressione subito insieme al collega italiano nell’ottobre di quell’anno, quando al vertice di Cannes i due paesi furono messi con le spalle al muro, venendo loro chiesto di accettare un commissariamento della Troika (UE, BCE e FMI), al quale sembrò opporsi, però, l’America di Barack Obama.

Default Italia, il timore nel 2011

Non vogliamo ripercuotere la bibliografia di quelle tragiche settimane (da Alan Friedman all’ex segretario al Tesoro USA, Timothy Geithner), ma cerchiamo di analizzare in sintesi e, se possibile, con la massima serenità mentale possibile quanto accadde nel 2011, dopo che la Procura di Trani ha aperto un’indagine a carico di Deutsche Bank per l’ipotesi di manipolazione dei mercati. Quell’anno si apre all’insegna di un secondo paese dell’Eurozona sulla strada per il default, l’Irlanda, la cui crisi finanziaria aveva travolto le sue banche, facendo impennare a oltre il 30% il deficit pubblico.

Dopo la Grecia, anche Dublino chiedeva un pacchetto di aiuti finanziari internazionali e sui mercati iniziava a serpeggiare il dubbio che non fosse finita.      

Il tragico errore della lettera BCE

L’anello debole apparve subito l’Italia: la nostra economia non cresce dall’inizio degli anni Novanta, mentre il rapporto debito/pil si avviava al 120%, il secondo più alto dopo quello ellenico in tutta la UE. Per giunta, il governo Berlusconi, che pure aveva superato un insidioso voto di sfiducia il 14 dicembre del 2010, sembrava poco coeso, lacerato tra liti interne alla coalizione di centro-destra, che esplosero nella tarda primavera, quando il PDL e la Lega Nord persero sonoramente le elezioni amministrative (Milano andò al centro-sinistra a guida Giuliano Pisapia, un esponente radicale). Deciso a rovesciare le sorti dell’esecutivo, il premier cercò di avocare a sé la gestione delle finanze statali, che fino ad allora erano state saldamente nelle mani del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. L’idea di Berlusconi era di rilanciare l’economia e la sua stessa immagine, appannata dagli scandali sessuali, con un vigoroso taglio delle tasse. Qui si apre un retroscena ancora oggi non confermato: Tremonti, nel tentativo di non vedersi ridimensionato da Palazzo Chigi, avrebbe scritto al governatore della BCE, l’uscente Jean-Claude Trichet, chiedendogli di mettere in riga Roma. Francoforte scrisse e inviò a Berlusconi la famosa lettera in 39 punti, che contemplava un nutrito calendario di altrettante riforme, tra cui quella delle pensioni. Nel frattempo, i mercati iniziavano a registrare qualche nervosismo e lo spread schizzava in estate ben oltre i 200 punti base sulla scadenza decennale. In teoria, la lettera della BCE doveva rimanere riservata, ma così non fu (c’è stato lo zampino di qualcuno nel governo Berlusconi?). La sua divulgazione fu una bomba.

Gli investitori ebbero la conferma che l’Italia stesse per essere commissariata. Di più, si ragionava: “se cade l’Italia, cade l’euro”.      

Crisi debito sovrano esplosa con decisione Eba

Germania e Francia erano preoccupate. I vertici bilaterali tra la cancelliera Angela Merkel e il presidente Nicolas Sarkozy (famoso quello del sorrisino su “Silvio”) si occupavano ormai quasi essenzialmente di come salvare il progetto euro e di come evitare che l’Italia, troppo grande per essere salvata, scivolasse nel default. Sciagurata la decisione dell’Eba (“European banking authority”), che nel mese di ottobre, su “ordine” del duo franco-tedesco, prescrive alle banche dell’Eurozona di valutare i titoli di stato acquistati ai prezzi vigenti al 30 settembre. Fu l’inizio della fine per i BTp, travolti dalle vendite, perché chi li aveva acquistati non poteva più annotarli al prezzo nominale di rimborso alla scadenza (100%). Inoltre, la misura fu avvertita dagli investitori quale conferma ulteriore che Italia e Spagna, in particolare, non fossero sicure e stessero per ristrutturare i loro debiti sovrani. Era accaduto – e qui torniamo al caso Deutsche Bank – che la più grande banca tedesca avesse dismesso già nel corso del primo semestre titoli di stato italiani per oltre 7 miliardi di euro. Trattandosi di un istituto leader nel mondo, il mercato ebbe la sensazione che le vendite fossero dovute proprio al rischio default dell’Italia, ossia lo interpretarono come un segnale negativo. Da lì, partirono copiose le vendite, che fecero impennare i nostri rendimenti sovrani. Ora, però, da qui a ipotizzare un complotto di Deutsche Bank ai danni del governo Berlusconi, magari su ordine di Frau Merkel, che non amava certamente l’esecutivo dell’allora premier, ve ne corre. Infatti, se andiamo a leggere le motivazioni con le quali la Procura di Trani ha aperto l’indagine nei giorni scorsi, scopriamo che l’ipotesi di “manipolazione dei mercati” non si confà affatto con quella del complotto.

     

Caso Deutsche Bank e manipolazione mercati

DB è accusata di avere venduto BTp massicciamente, senza averlo comunicato tempestivamente al mercato, nonché di averlo persino rassicurato sulla sostenibilità del debito italiano, contro i cui rischi nel frattempo si assicurava, attraverso gli acquisti di 1,4 miliardi di Cds. Dunque, i tedeschi sono accusati non di avere ordito un complotto ai danni del governo italiano, bensì di avere tenuto nascosto al mercato il livello effettivo del rischio temuto sull’Italia. A ben vedere, sarebbe l’esatto contrario di un complotto, nel senso che quanto avrebbe combinato la banca, quand’anche risultasse illecito, sia dovuto alla sua esigenza di sbarazzarsi dei nostri titoli, pur cercando di rasserenare gli investitori sulla tenuta del nostro debito. Sempre in tema di smentita del complotto, non possiamo non ricordare che le dimissioni di Berlusconi furono dovute all’inesistenza della sua maggioranza, che non era stata in quei giorni nemmeno in grado di approvare il Rendiconto dello Stato, un documento contabile formale, ma la cui bocciatura sanciva ormai la fine dell’esperienza del governo in carica.

Berlusconi sostenne Monti

E come non ricordare, poi, che fu lo stesso PDL a sostenere insieme al PD il governo Monti? Ma se l’ex premier avesse avuto l’intuizione che fosse trattato di un complotto, avrebbe mai appoggiato il suo “carnefice”? Altro aspetto trascurato è che la crisi dello spread non scomparve con la caduta del governo Berlusconi, anzi il suo picco fu raggiunto nel luglio del 2012, quando governava Monti, in coincidenza con le previsioni nerissime sull’euro da parte degli investitori. Ora, se fosse stato complotto, dovremmo dedurre che le grandi banche avessero bombardato i titoli di stato agli ordini dei rispettivi governi, quando in carica vi era Berlusconi, salvo tornare agli acquisti successivamente. Invece, la relativa calma tornò sui mercati solo con quel “whatever it takes” di Mario Draghi del 26 luglio 2012, pronunciato per salvare l’euro da una fine considerata vicinissima. Seguirono il varo del piano anti-spread o formalmente noto come OMT (“Outright Monetary Transactions”), nonché le misure di stimolo negli anni seguenti.      

Non fu complotto, semmai pregiudizio contro Berlusconi

Per cercare di rispondere definitivamente alla domanda sul presunto complotto, dobbiamo ammettere semmai che contro il governo Berlusconi s’instaurò un clima di sfiducia, di pregiudizio, che spinse i mercati nell’estate del 2011 a non assegnare alcuna credibilità alla manovra finanziaria d’emergenza varata, inclusiva di una riforma delle pensioni alquanto ragionevole. Sarà anche perché eravamo all’inizio di questa crisi finanziaria quasi infinita, ma è come se 5 anni fa i mercati avessero aspettative molto più elevate di quelle odierne, rimanendo quasi immediatamente contrariati alla percezione di una deviazione dei governi dal percorso delle riforme desiderato. Sappiamo che oggi, invece, complici i potenti stimoli monetari, pur in presenza di un debito in continua crescita, di fondamentali deboli e di riforme scarse, gli investitori mostrano molta più tolleranza. Silvio Berlusconi non fu molto presumibilmente vittima di alcun complotto, ma di un’Eurozona senza bussola, che non riuscì a gestire in maniera efficace e credibile la crisi di fiducia verso l’euro. Il governo ci mise del suo con le divisioni sulle riforme e qualche tensione di troppo, per non parlare delle opposizioni, che lungi dal cercare di dare vita a un clima di unità nazionale in funzione anti-crisi, ne approfittò (legittimamente) per cercare di sbarazzarsi una volta per tutte del premier. Insomma, quello dello spread non fu un “imbroglio”, come rimarca da sempre l’ex premier, ma la ovvia conseguenza di mercati in fibrillazione sulla paventata scomparsa imminente della moneta unica.