Gli Stati Uniti starebbero vincendo la battaglia contro l’inflazione, l’Europa no. Nell’Eurozona la crescita dei prezzi al consumo a giugno è stata del 5,55% su base annua, nel Regno Unito era ancora dell’8,7% a maggio. Di strada da percorrere per tornare al 2% ce n’è ancora tanta da fare. Le banche centrali continuano a fare la voce grossa sull’aumento dei tassi di interesse, facendo capire che abbiano ancora lavoro da compiere. Come mai la stretta monetaria non sta esitando i risultati sperati? Anzitutto, occorre chiarire che la lotta all’inflazione è iniziata quasi ovunque un anno fa o poco più.

Addirittura, nell’Eurozona la Banca Centrale Europea (BCE) alzò i tassi per la prima volta solo nel luglio del 2022.

Profitti aziende salgono con le borse

Secondariamente, negli Stati Uniti i tassi sono saliti già al 5,25%, mentre da noi ci sono polemiche furenti sul 4% fissato a giugno. Tuttavia, è pur vero che qualcosa starebbe andando storto. Date un’occhiata alle borse. Salgono come se l’economia stesse andando a gonfie vele. L’S&P 500 segna +18% quest’anno. C’è incoerenza in questo trend? Non tanto. In effetti, se le retribuzioni orarie un po’ dappertutto crescono meno dell’inflazione, significa che il costo del lavoro stia diminuendo in termini reali. Ciò sta rendendo le aziende più competitive. E molte di esse hanno potuto incrementare i profitti. Non solo quelle legate al comparto energetico, che l’anno scorso hanno fatto grossi affari vendendo a prezzi stratosferici petrolio e gas estratti a costi sostanzialmente invariati.

Qualcuno invoca il salario minimo per ribattere a questa erosione del potere di acquisto, altri vorrebbero imporre una tassa più generalizzata sui “sovraprofitti”. L’essenziale è invisibile agli occhi, però, per citare Antoine de Saint-Exupéry. Bisogna tornare ai fondamentali dell’economia per capire quanto stia accadendo: le aziende che riescono ad approfittare dell’inflazione per aumentare i prezzi ai clienti, si trovano perlopiù in una posizione oligopolistica o monopolistica.

Per essere più franchi, non hanno abbastanza concorrenza per temere di perdere fette di mercato e annessi profitti.

Globalizzazione in crisi ideologica

Negli primi decenni della globalizzazione, grosso modo gli anni Ottanta, Novanta e fino a pochi anni fa, le liberalizzazioni erano in cima all’agenda politica un po’ di tutti i governi occidentali, conservatori o progressisti che fossero. Fu anche grazie a questo che l’amministrazione Reagan poté piegare l’inflazione, oltre all’aumento dei tassi di interesse. Le rendite di posizione quasi svanirono. Si pensi alla rimozione delle barriere all’ingresso sul mercato dei voli aerei. Le tariffe crollarono, il numero dei passeggeri esplose e il giro d’affari s’impennò. Ne seguirono il boom di posti di lavoro e del turismo internazionale.

La globalizzazione aveva contrastato l’inflazione grazie sia al progresso tecnologico che all’aumento della concorrenza, divenuta mondiale. Man mano che alcuni settori e singole aziende rimasero vittima di questa ventata di apertura dei mercati, i governi hanno subito crescenti pressioni per tutelare pezzi delle rispettive economie. Le liberalizzazioni iniziavano così un declino ideologico all’indomani della crisi finanziaria mondiale del 2008, quando la globalizzazione finì nel mirino delle opinioni pubbliche. D’altra parte, i paesi che hanno saputo approfittare di questo cambiamento epocale, hanno ignorato le nuove tendenze oligopolistiche che si stavano creando. Colossi del digitale, ad esempio, avevano inizialmente abbattuto le rendite di posizione dei vecchi mercati chiusi, salvo ritagliarsene di nuove e a proprio vantaggio.

Lotta a inflazione più difficile

Il mix tra gigantismo di alcune multinazionali che controllano gran parte del mercato globale e l’arretramento legislativo sulle liberalizzazioni sta ricreando le condizioni per riportare in auge il fardello dell’inflazione. E non è detto che basti ora la buona volontà per risolvere il problema.

Alcune materie prime sono in mano a pochissime aziende site in paesi lontani da noi sul piano geopolitico. La crisi dei chip nel 2021-2022 scaturì dalla chiusura per Covid di un solo stabilimento di Taiwan, quello della TSCM. A cascata divenne impossibile produrre auto, elettrodomestici, dispositivi elettronici, ecc. La carenza di questi prodotti ne determinò l’impennata dei prezzi, innescando la spirale inflazionistica contro cui ancora oggi combattiamo.

In definitiva, le banche centrali sono state concausa forte del boom dell’inflazione dopo anni di accomodamento monetario senza precedenti. D’altra parte sono state lasciate sole nel risolvere il problema, un po’ per ignavia dei governi, un po’ per l’assenza di consapevolezza. E’ cambiato l’approccio del legislatore al tema delle liberalizzazioni. Si è passati dalla ricerca della concorrenza in tutti i campi alla difesa dei mercati nazionali contro l'”assalto” delle multinazionali straniere e, all’interno di essi, all’assistenza in varie forme delle imprese a tutela del lavoro e della produzione. Non si parla più di delocalizzazioni – e questo in sé non è un male – bensì di “reshoring”. Con queste premesse la lotta all’inflazione non finirà presto e sarà più dolorosa del dovuto per la necessità di alzare i tassi più di quanto non basterebbe con mercati più concorrenziali.

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