Il governo dell’Indonesia ha adottato una decisione scioccante questa settimana, vale a dire il divieto di esportare olio di palma. Il paese del sud-est asiatico indice per il 56% delle esportazioni totali e il 34% delle sole esportazioni degli oli commestibili. La misura è stata presa a seguito del boom delle quotazioni internazionali, che a marzo avevano toccato il record storico, a cui stanno ritornando proprio in questi giorni. Gli alti prezzi stavano rischiando di provocare carenza di olio di palma sul mercato domestico.

Per tutta reazione, anche l’olio di soia è rincarato sui mercati internazionali, così come gli altri oli vegetali. L’auto-embargo indonesiano rischia di accentuare la crisi alimentare che sta travolgendo diverse economie emergenti, attraverso un ulteriore surriscaldamento dell’inflazione per il cibo.

Un altro colpo alla globalizzazione

Fino a qualche anno fa, una decisione come quella di Giacarta sarebbe risultata molto complicata da prendere. La globalizzazione ha regole scritte e non, le quali negli ultimi decenni avevano garantito l’approvvigionamento dei beni in qualsiasi scenario. Le delocalizzazioni sono potute avvenire senza resistenze particolari dei governi occidentali proprio grazie all’assunto per cui produrre in loco o a migliaia di chilometri di distanza fosse uguale sul piano della sicurezza economica.

Con la pandemia, sono stati gli schemi. Gli stati hanno iniziato a chiudersi nel tentativo di conservare i livelli di offerta di beni divenuti improvvisamente indispensabili, come mascherine e respiratori polmonari. In Europa, la Commissione europea nella primavera del 2020 dovette intervenire per impedire a Germania e Francia di vietare le esportazioni proprio di questi prodotti. Sarebbe stata la fine del mercato unico, cioè della stessa Unione Europea.

Ad ogni modo, la globalizzazione versava in crisi d’identità già dopo la crisi finanziaria del 2008, quando governi e opinione pubblica presero di mira “gli eccessi della finanziarizzazione dell’economia”. Con la pandemia, le visioni critiche ne sono risultate esaltate.

E, soprattutto, esse sono state abbracciate dall’establishment economico e politico, pur con iniziale riluttanza e senza voler smantellare formalmente i presupposti ideologici e teorici che sono stati alla base dei mercati negli ultimi trenta anni.

I costi del reshoring

I detrattori della globalizzazione troveranno favorevole questo passo indietro evidente nelle relazioni commerciali e finanche finanziarie tra stati. Tuttavia, come ci dimostra anche l’ultimo caso relativo all’olio di palma, il processo di “reshoring” si sta accompagnando a un aumento anche a doppia cifra dei costi di produzione, cioè anche dei prezzi al consumo. I guadagni in termini occupazionali saranno tutti da dimostrare. Anzi, se c’è una cosa che ci ha insegnato la globalizzazione, malgrado la sensazione contraria che abbiamo in Occidente, è che le specializzazioni (e delocalizzazioni) produttive avevano portato a un aumento dell’occupazione, pur a fronte di una crescita salariale molto più moderata che in passato.

In altre parole, se pensiamo che la globalizzazione l’abbiano pagata i ceti meno abbienti in Occidente, state certi che pagheranno anche la deglobalizzazione in atto, se così possiamo chiamarla. Con la prima ebbero stipendi piatti con prezzi al consumo altrettanto stabili, con la seconda rischiano di continuare ad avere stipendi altrettanto piatti in termini reali, ma con un’inflazione accentuata. E questo è dovuto al fatto che le imprese sostengono maggiori costi per produrre, i quali devono essere scaricati sui prezzi finali. Del resto, al di là degli interessi specifici delle multinazionali, la globalizzazione era penetrata culturalmente nelle classi dominanti di tutto il mondo per le sue implicazioni positive sull’economia mondiale e sui singoli mercati nazionali. Non sarà certamente tutto perduto, ma dopo pandemia e guerra non si tornerà al 2019.

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