Il 2021 passerà alla storia tra l’altro anche per essere stato l’anno della carenza dei chip, con la speranza che sia l’ultimo. La ripresa della produzione globale è dappertutto rallentata, specie nei comparti automotive, degli elettrodomestici e dell’elettronica di consumo, dalla scarsa disponibilità di semiconduttori. E parte del problema lo si deve proprio al Covid. Non tutte le fabbriche sono tornate ai livelli di produzione ordinari e, pertanto, l’offerta non sta riuscendo a tenere il passo con l’aumento della domanda.

Per cercare di dare sollievo all’industria nazionale, l’amministrazione Biden ha stanziato 50 miliardi di dollari in primavera. Ci vorranno mesi prima che queste misure esitino la loro efficacia. Ad ogni modo, si prevede che la carenza di chip nella seconda metà dell’anno dovrebbe scemare. Tuttavia, da Taiwan non stanno arrivando buone notizie. A inizio giugno, il governo ha imposto alla società di semiconduttori KYEC (King Yuan Electronics) di mettere in quarantena 2.000 dei suoi dipendenti stranieri, un quinto dell’intera manodopera, a causa di svariati casi di Covid che li hanno riguardati.

Ad oggi, KYEC non è stata in grado di ottemperare alle disposizioni, non riuscendo a trovare immobili in cui ricollocare temporaneamente i suoi dipendenti, avendo dovuto ridurne il numero nei dormitori aziendali. Questa situazione sta già rallentando la produzione. E non sarà un problema marginale per l’industria mondiale, dato che KYEC indice per il 3,7% dei volumi globali.

La crisi dei chip dipende da Taiwan

Se il Covid sull’isola dovesse registrare una qualche recrudescenza, ad oggi del tutto escluso dalla curva dei contagi, scatterebbe un vero allarme rosso per l’intero pianeta. Pensate che la sola Taiwan Semiconductor Manufacturing Limited produce il 92% della fascia alta dei chip e una quota rilevante del resto. In sostanza, si fermerebbe la produzione nel resto del mondo di chicchessia.

La società è così importante per la filiera dell’elettronica, che in borsa capitalizza oltre 600 miliardi di dollari, tra le più grandi al mondo.

I problemi di Taiwan non sono finiti. La provincia ribelle, che non ha mai riconosciuto la Repubblica Popolare Cinese sin dalla sua fondazione nel 1949, si sta preparando allo scenario di un “conflitto militare” con Pechino. Lo ha dichiarato poche ore fa il suo ministro degli Esteri, Joseph Wu, a proposito delle incursioni aeree cinesi nella Zona di Identificazione della Difesa Aerea. Provocazioni quelle del regime comunista, che puntano a istigare le forze taiwanesi a compiere un qualche gesto tale da giustificare un intervento militare della Cina sull’isola. Ma gli USA mostrano sostegno all’alleato, facendo passare una nave da guerra nelle acque dello Stretto di Taiwan.

Xi Jinping non tollera più alcuna dissidenza nei confronti della sua dittatura. Nei giorni scorsi, la polizia ha fatto irruzione presso la redazione di un giornale di opposizione a Hong Kong, Apple Daily, arrestando direttore e vari manager e “congelandone” i conti bancari e il patrimonio. Per questo, il quotidiano pubblicherà l’ultima edizione nella giornata di domenica. Dopodiché, chiude. Hong Kong è stato un paradiso per le multinazionali di tutto il mondo, mentre negli ultimi due anni si sta trasformando sempre più in un’area meno sicura e assoggettata alla crescente repressione cinese. Qui, a tremare è il mondo della finanza. Taiwan, invece, infliggerebbe un duro colpo ai chip.

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