L’OCSE ha certificato in settimana l’allarme salariale, tra l’altro nota ai diretti interessati da molti anni. Alla fine del 2022, spiega l’organizzazione con sede a Parigi, i salari reali in Italia risultavano diminuiti del 7% rispetto al periodo immediatamente precedente alla pandemia. Si è trattato del calo più marcato tra tutte le economie dell’area, cioè quelle più sviluppate del pianeta. In pratica, l’inflazione è cresciuta nel triennio considerato del 7% in più rispetto alle retribuzioni nominali. In Francia, nello stesso periodo sono cresciute in termini reali dell’1,50%.

Considerate anche che tra il 1990 e il 2020, l’Italia è stato l’unico paese dell’Occidente ad avere registrato un calo reale (-2,8%). Acqua al mulino di chi propone l’introduzione del salario minimo.

Tra l’altro, quest’anno l’OCSE stessa stima che l’inflazione italiana sarà in media del 6,4% contro una crescita delle retribuzioni del 3,7%. L’anno prossimo, invece, queste ultime inizierebbero a recuperare terreno, pur lentissimamente: +3,5% contro un’inflazione attesa del 3%. Il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti tende a contrarsi di anno in anno, ragione per la quale i consumi delle famiglie sono poco dinamici da molto tempo e deprimono la domanda aggregata interna.

Impatto sul mercato del lavoro

Dunque, hanno ragione coloro che propongono il salario minimo di 9 euro l’ora? Al di là delle soglie, su cui servirebbe un dibattito politico serio e non demagogico, esistono motivazioni di ordine strutturale a deporre contro la proposta. La prima riguarda l’impatto che la misura avrebbe sull’economia italiana. Le imprese, che abbiano o meno approfittato dei bassi salari negli anni passati, scaricherebbero i maggiori costi sui prezzi al consumo. L’inflazione resterebbe più alta di quanto non sarebbe in assenza del salario minimo. A pagare il costo sarebbero i soliti noti: i consumatori, alias gli stessi lavoratori o famiglie che dir si voglia.

Scaturirebbe anche un problema di appiattimento salariale. Se tutti avessero diritto per legge a percepire tot euro l’ora, i lavoratori che oggi percepiscono poco più di tale soglia si ritroverebbero fregati. Pur in presenza di maggiori anni di anzianità di servizio e/o di competenze, rischierebbero di guadagnare quanto i nuovi arrivati non qualificati. A loro volta desidererebbero stipendi più alti e ciò finirebbe per innescare una spirale inflazionistica. Infine, già oggi il 97% dei lavoratori dipendenti è coperto da contratti nazionali, cioè percepisce retribuzioni fissate dalla negoziazione tra sindacati e imprenditori.

Landini (CGIL) abbraccia la proposta del centro-sinistra

A proposito, i sindacati cosa dicono? In generale, la proposta non sta scaldando i loro cuori. Il salario minimo rischia, infatti, di rendere inutile il loro lavoro, che consiste proprio nel negoziare in rappresentanza dei lavoratori iscritti condizioni retributive e non quanto migliori possibili, date le condizioni del mercato. Se passasse il messaggio che una legge può prima e meglio fare al posto loro, non avrebbero più alcuna rilevanza sociale. Eppure la CGIL di Maurizio Landini è favorevole. Si accorge che i salari siano bassi e tuona contro l’esecutivo, colpevole a suo dire di ignorare il disagio dei lavoratori.

La CGIL è il sindacato più ideologizzato tra le principali sigle italiane. La sua contiguità politica con la sinistra in Parlamento è palese a tutti. Non a caso sta protestando in questi mesi contro il ritorno alla legge Fornero ad oltre undici anni dalla sua entrata in vigore. Sarebbe ridicolo solo a pensarci. Il sindacato di Landini, insieme agli altri, per decenni non è stato capace di portare a casa uno straccio di aumento salariale degno di nota. E ora pretende che fosse il governo a imporlo per legge, sancendo ufficialmente la propria inettitudine.

Salario minimo serve ai sindacati per conservare la faccia

La verità è che il salario minimo non è una misura intesa a favorire i lavoratori, quanto a salvaguardare paradossalmente il ruolo dei sindacati.

Questi si rendono conto che, dopo oltre trenta anni di arretramenti salariali, non hanno più alcuna credibilità da difendere. Temono, però, di perdere totalmente la faccia con un’inflazione che è arrivata alla doppia cifra, mentre gli aumenti delle retribuzioni in media sono state attorno all’1%. Per limitare i danni d’immagine già grossi, stanno spostando l’oggetto della loro battaglia. Anziché puntare alle imprese, ripiegano verso il governo. Credono di poter ottenere a colpi di dirigismo ciò che non sarebbero in grado di strappare in sede negoziale. In caso di esito positivo, si prenderebbero il merito di avere posto la questione all’attenzione della politica. In caso negativo, addosserebbero le responsabilità sul governo, che oltretutto considerano politicamente ostile o non amico.

I sindacati che oggi fingono di stracciarsi le vesti sul salario minimo, sono gli stessi che nel 1993 siglarono l’accordo per la moderazione salariale con l’allora governo Ciampi. Due anni dopo, accettarono la più complessa riforma delle pensioni mai concepita in Occidente nell’era moderna. A fine 2011 tacquero dinnanzi al varo della legge Fornero e qualche anno più tardi diedero il placet al governo Renzi sul Jobs Act. Tutti provvedimenti che oggi rinnegano, perlomeno la CGIL, pretendendo che il governo di turno li smantelli per andare incontro ai loro ripensamenti.

La legge sul salario minimo in Italia non serve e non sarebbe neppure positiva per il mercato del lavoro. E’ l’ultima battaglia che salda il fronte sindacati-sinistra per cercare di porre rimedio a decenni di figuracce e ai dati ufficiali che ne evidenziano l’assoluta inettitudine sul fronte della difesa del potere di acquisto in tempi di alta inflazione.

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