Il debito pubblico italiano è sceso a settembre a 2.212 miliardi di euro, segnando un calo di circa 40 miliardi in un paio di mesi. Non si tratta di un’inversione di tendenza, bensì dell’utilizzo da parte del Tesoro delle scorte di liquidità accumulate nella prima parte dell’anno, approfittando dei bassissimi rendimenti. Decimale più, decimale meno, a seconda che si considerino i calcoli della Commissione europea o quelli appena più positivi del governo italiano, il rapporto tra debito e pil quest’anno chiuderà nel nostro paese a circa il 133%, un livello mai registrato prima.

Quanto agli anni seguenti, le stime divergono anche in questo caso tra Roma e Bruxelles, ma nessuno dei due prevede una robusta discesa del grado di indebitamento, anzi l’Europa lo attende persino in lieve crescita. (Leggi anche: Debito pubblico in calo a settembre)

La sostanza resta quella dell’ultimo quarto di secolo: l’Italia è un paese ultra-indebitato e finge di non rendersene conto, oppure peggio, non si rende conto davvero. Si succedono i governi, ma ognuno di loro ha una giustificazione per rassicurare contro il mancato risanamento dei conti pubblici. Si spazia dal fatto che le famiglie italiane siano tra le più ricche al mondo (e allora?) alla capacità di gestire questo enorme stock di passività, passando per l’ottimismo sulle prospettive economiche future.

Come varia il debito rispetto al pil

I numeri ci dicono, invece, che ci sarebbe poco da scherzare con le parole. Il rapporto tra debito e pil varia a seconda di quanto cresca l’uno e quanto aumenti l’altro. La crescita del debito pubblico è il deficit, quello su cui ieri la Commissione europea ha lanciato l’allarme, sostenendo che al netto delle componenti eccezionali, tenderebbe a salire, quando dovrebbe scendere in rapporto al pil.

Il deficit a sua volta è frutto della somma tra saldo primario e della spesa per interessi sul debito accumulato.

L’Italia ha oggi un avanzo primario intorno all’1,5%, ovvero spende 1,5 punti di pil in meno di quanto incassi dai contribuenti, ma poiché deve anche pagare intorno al 4% di pil in interessi sul debito, la somma finale è negativa per quasi il 2,5% del pil. (Leggi anche: Debito pubblico, quale austerità?)

 

 

 

Deficit più alto della crescita del pil

Il deficit può essere contenuto, quindi, tenendo a bada la spesa pubblica da un lato e irrobustendo le entrate fiscali dall’altro. Senonché queste ultime sono già altissime, per cui sarebbero da tagliare le uscite o quanto meno da “congelare”. La spesa per interessi, invece, non è una variabile nelle mani del governo, perché dipende dai mercati. Lo stato può contenerla, mostrandosi finanziariamente solido e attirando la fiducia degli investitori, ma il discorso vale fino a un certo punto, perché un debito al 133% è pur sempre elevato e gli interessi gravanti su di esso incidono parecchio sul bilancio pubblico.

Quanto al pil, esso cresce in funzione del pil reale da un lato e dell’inflazione dall’altro. In Italia, l’indice dei prezzi è ancora leggermente negativo e la crescita economica inferiore all’1%. Risultato? Il pil nominale cresce un terzo del deficit. (Leggi anche: Flessibilità sul deficit? Non è opzione per Italia)

Costo debito in calo solo grazie a Draghi

Contrariamente a certa narrativa ottimistica, l’Italia non starebbe dirigendosi verso la soluzione dei suoi problemi, ma al contrario ha più probabilità di tornare a quel terribile 2011, l’anno della crisi dello spread. Il rialzo dei rendimenti tende, infatti, a fare aumentare il deficit, mentre la deflazione strisciante in cui la nostra economia ancora versa spinge per azzerare la crescita.

L’effetto combinato di questi fenomeni si traduce in un tendenziale aumento del rapporto debito/pil.

A titolo di esempio, grazie al “quantitative easing” della BCE, il costo medio del debito emesso nel 2015 è stato del 3,39%, mentre era al 3,61% nel 2011. In rapporto al pil, abbiamo speso lo scorso anno il 4,2% per pagare gli interessi, ma cosa accadrà, quando i rendimenti dei BTp torneranno a salire, come stanno già facendo da qualche mese? (Leggi anche: Debito pubblico, risanamento più difficile con fine tassi zero)

 

 

Con la fine del QE s’impennerà la spesa per interessi

Ebbene, a regime, immaginando di emettere il nostro debito al costo medio di 5 anni fa, quando infuriava lo spread, la spesa per interessi schizzerebbe di quasi l’1,5% del pil, portando il nostro deficit verso il 4%, tranne che nel frattempo non abbia attecchito un po’ di crescita e che l’inflazione non sia risalita. Ciò, perché negli ultimissimi anni stiamo emettendo debito quasi a costo zero, ma così non sarà con il venir meno del QE della BCE. Man mano che dovremmo rinnovare il debito in scadenza a costi più elevati, i nodi verranno al pettine per i nostri conti pubblici. Vedremo allora quanti dei politici di oggi, di maggioranza e di opposizione, avranno il coraggio di dire agli elettori che la colpa della crisi italiana sia dell’Europa, che non ci permette di spendere abbastanza. (Leggi anche: Debito pubblico, costo esplosivo con fine QE)