Il salvataggio delle due banche venete – Popolare di Vicenza e Veneto Banca – benedetto dal presidente Sergio Mattarella, potrebbe costare ai contribuenti italiani fino a 17 miliardi di euro tra esborsi cash e garanzie prestate dallo stato, ai quali si aggiungeranno le eventuali perdite derivanti dalla cessione dei crediti deteriorati per 10 miliardi e caricati a una “bad bank” a partecipazione pubblica, qualora avvenisse a prezzi medi inferiori a quelli a cui sono stati già svalutati. Fa ancora più rabbia sapere che oltre un punto percentuale di pil verrà masticato per mettere in sicurezza i due istituti del nord-est, la cui dirigenza negli ultimi anni si è resa responsabile di fatti criminali e nel silenzio delle istituzioni deputate a monitorarli.

Con lo scoppio della crisi finanziaria mondiale, le banche venete andarono in controtendenza rispetto al resto del mercato, aumentando i prestiti alla clientela (+64% per Veneto Banca e +35% per Vicenza tra il 2008 e il 2012), ma cosa ancora più curiosa è che mentre i titoli azionari delle banche italiane precipitavano, quelle dei due istituti, non quotati in borsa, salivano, passando dai 33 euro del 2007 ai 40,25 euro del 2011 per Veneto Banca e dai 58 a 62,50 euro del 2014 per Vicenza. A questi prezzi, la prima capitalizzava per oltre 2 volte il suo patrimonio netto, la seconda per 1,2 volte. (Leggi anche: Banche venete, salvataggio incentiva azzardo morale)

La truffa dei prestiti baciati

Si consideri che oggi, quando il grosso della crisi delle azioni bancarie sembra alle spalle, la solida Intesa-Sanpaolo vale in borsa 0,90 volte il suo patrimonio netto, Unicredit qualcosa di meno. In altri termini, i prezzi delle azioni delle due banche venete erano spropositatamente alti, come dimostreranno i tagli decisi dagli amministratori in fase di quotazione in borsa, a seguito della trasformazione in spa, che sarebbe dovuta avvenire per effetto del decreto sulle banche popolari, varato dal governo Renzi a inizio 2015.

Cosa aveva spinto il valore di tali azioni? Una vera e propria truffa.

Ai clienti richiedenti un prestito, le due banche proponevano l’acquisto delle proprie stesse azioni, senza il quale non avrebbero visto il becco di un quattrino. Pertanto, in un solo colpo, gli impieghi si moltiplicano e con essi il valore del capitale delle banche medesime, attraverso la pratica nota anche come dei “prestiti baciati”. In seguito, agli stessi clienti sono stati rifilati persino obbligazioni subordinate con questo giochino, ovvero titoli ad alto rischio, non confacenti a una clientela dal profilo inadeguato.

La beffa di Atlante

Un anno fa, il Tribunale di Venezia ha giudicato “nulli” i contratti di finanziamento accesi dalla Popolare di Vicenza, dietro l’erogazione di un prestito baciato. Magra soddisfazione per gli azionisti-clienti dell’istituto, che nel frattempo si erano visti azzerare il valore dei titoli in possesso, dopo che il fondo Atlante li aveva rilevati per pochi centesimi, ovvero a una frazione del loro valore di acquisto da parte degli ignari azionisti.

E anche la storia di Atlante in sé puzza di bruciato. Unicredit si era impegnata a garantire la nascita di un consorzio per la quotazione in borsa della Popolare di Vicenza, Intesa di Veneto Banca. Piazza Gae Aulenti si ritrasse all’inizio dello scorso anno dall’affare, fiutando il rischio di un flop e di doversi accollare la sottoscrizione integrale o quasi di un capitale praticamente dal valore nullo. Per questo, il governo intervenne dietro le quinte, assecondando un’operazione di sistema, che ebbe come obiettivo reale non tanto il salvataggio delle due banche venete, bensì di togliere il fuoco dalle castagne a Unicredit e Intesa, a loro volta azioniste di Atlante, ma insieme al resto del gotha finanziario nazionale. E adesso, Intesa è pure la stessa ad avere rilevato per un euro le attività in bonis delle due banche, depurate da qualsiasi asset a rischio, addossato allo stato.

(Leggi anche: Banche venete, Intesa si prende solo la parte buona)

A pagare per le malefatte saremo noi contribuenti

Popolare di Vicenza e Veneto Banca non sono crollate sotto i colpi della crisi economica, per avere puntato sulla clientela in tempi di crisi, come si affanna a fare credere qualche giornalista poco accorto o in palese malafede. La loro caduta è stata determinata da un mix di comportamenti criminali e di incompetenza, dato che i rispettivi presidenti-padroni per decenni, rispettivamente Gianni Zonin e Vincenzo Consoli, giocavano a fare i grandi banchieri, ma forse essendo tutt’altro che tali.

Non vogliamo spargere il sale sulle ferite, quando sottolineiamo che abbiamo appena salvato con i soldi delle nostre tasse due istituti, le cui pratiche rappresentano una vergogna nel panorama del credito e i cui manager andrebbero quanto meno esclusi a vita dalla possibilità di combinare altri danni al sistema-paese, oltre che più immediatamente ai loro clienti; eppure, questa è la verità. Gli ideatori di uno schema Ponzi in salsa veneta forse non verranno mai chiamati a pagare per i danni arrecati all’economia italiana e agli istituti da loro amministrati. Negli USA, l’ultimo ad avere truffato in massa i risparmiatori, tale Bernard Madoff, marcisce in galera dal 2008 e gli resta ancora da scontare qualcosa come quasi un secolo e mezzo di reclusione. (Leggi anche: Banche venete, salvataggio a carico dei contribuenti e mistero fondi stranieri)