Costo del denaro ancora più basso negli Stati Uniti dopo la riunione di ieri della Federal Reserve. Appuntamento importante, anche perché seguiva di soli due giorni le elezioni americane. Il governatore Jerome Powell ha voluto mettere le cose in chiaro: l’esito elettorale non influenza le decisioni di politica monetaria nel breve termine. La Fed ha tagliato i tassi di interesse dello 0,25% al range del 4,50-4,75%. A settembre, li aveva abbassati di mezzo punto percentuale fino al 5%. Per quanto l’economia americana resti solida, il calo dell’inflazione al 2,4% a settembre ha creato quei margini di manovra sufficienti per l’istituto.
Primo board dopo elezioni Usa
Il Comitato di politica monetaria ha segnalato che i rischi per occupazione e inflazione siano bilanciati e che non ci sarebbero pressioni inflazionistiche da parte del mercato del lavoro. E così gli investitori scontano un terzo taglio dei tassi Fed per dicembre, anche in quel caso dello 0,25% al 4,25-4,50%. Dopo l’annuncio di Powell, che era grosso modo stato scontato dai mercati, i rendimenti dei Treasuries sono un po’ scesi dai massimi toccati dopo l’elezione di Donald Trump.
L’appuntamento di ieri ha attirato le attenzioni dei media più che altro per due lettere pronunciate da Powell in risposta a una domanda dei giornalisti se si dimetterebbe nel caso in cui Trump glielo chiedesse: “no”. Il presidente eletto ad ottobre aveva dichiarato di voler dire la sua sui tassi Fed, pur riconoscendo di non poter intervenire per rimuovere eventualmente il governatore dalla carica.
Indipendenza della politica monetaria
La risposta di Powell non poteva che essere quella. Rivendicare l’indipendenza della politica monetaria dalla sfera politica è il minimo indispensabile per mostrarsi credibili. Un fatto assodato negli ultimi decenni, messo in dubbio proprio da Trump. Nel 2019, rompendo una tradizione che andava avanti dalla presidenza Reagan, chiese pubblicamente tramite social che “Jay” tagliasse i tassi Fed.
Sul punto bisogna fare chiarezza: la politica non deve mai immischiarsi ufficialmente nelle decisioni delle banche centrali. Guardate cos’è accaduto in Turchia, dove il presidente Recep Tayyip Erdogan ha preteso di imporre la sua politica sui tassi ad un governatore licenziato dopo l’altro. La lira turca è collassata e l’inflazione è esplosa. E così, oggi il paese si ritrova con tassi al 50% per cercare di battere un’inflazione ancora al 48,6%.
Nei fatti, però, politica e banca centrale non sono due mondi paralleli come vogliono far credere. E la dimostrazione l’ha offerta proprio Powell. Nel 2019 tagliò tempestivamente i tassi Fed non appena Trump glielo chiese via Twitter. E pochi mesi dopo li azzerò nelle stesse settimane in cui circolavano notizie circa la sua rimozione da parte del presidente. Probabile, tuttavia, che nel secondo caso avrebbe agito nello stesso modo per via della pandemia.
Tassi Fed, scontro a breve con Trump improbabile
Gli Stati Uniti dispongono ancora di margini di manovra sui tassi Fed, i quali dopo la decisione di ieri restano del 2,35% più alti dell’ultimo dato sull’inflazione. Nell’Eurozona, ad esempio, i tassi reali sono soltanto all’1,25%. Dunque, da qui a pochi mesi non dovrebbero esserci grossi problemi tra istituto e Casa Bianca. A meno che Trump non reclamasse dal suo insediamento un taglio drastico del costo del denaro, operazione molto rischiosa per via delle incertezze sia circa una possibile ripresa dell’inflazione americana già in corso, sia relativamente all’impatto sui prezzi della politica economica della nuova amministrazione.