Referendum sul lavoro: PD e CGIL vivono su un pianeta parallelo

I referendum sul lavoro sono un'operazione di harakiri per PD e CGIL, che sul piano politico dimostrano di capirci poco e nulla.
2 settimane fa
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PD e referendum sul lavoro
PD e referendum sul lavoro © Licenza Creative Commons

Domenica 8 e lunedì 9 giugno si terrà i 4 referendum sul lavoro e quello per accorciare da 10 a 5 anni il periodo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza italiana. A farmi promotori dei quesiti sono stati CGIL, PD, Movimento 5 Stelle e Alleanza Sinistra Verdi. Un’operazione di harakiri sul piano politico per la sinistra italiana. Perché le norme contestate sono proprio quelle del Jobs Act, vale a dire la riforma del mercato del lavoro voluta nel 2014 dall’allora governo Renzi, cioè dal PD stesso. Dai sondaggi emergerebbe l’elevata probabilità che non venga raggiunto il quorum del 50% più un voto.

I 4 quesiti in sintesi

Già questo sarebbe motivo per la segretaria dem Elly Schlein di non metterci la faccia.

Invece, la numero uno del Nazareno sembra persino motivata a farlo. E poco importa se ciò vale per il suo partito un’umiliazione pubblica, essendo allo stesso tempo soggetto che contesta le norme sul lavoro e quello che le introdusse poco più di un decennio fa. Alla faccia della coerenza. Ma vediamo nel dettaglio cosa propongono i 4 quesiti relativi ai referendum sul lavoro.

  1. In caso di licenziamento illegittimo (senza giusta causa), il Jobs Act consente alle aziende sopra 15 dipendenti di non reintegrare il lavoratore. A questi spetterebbe eventualmente un indennizzo nell’importo compreso tra 6 e 36 mensilità. Sinistra e CGIL vogliono tornare al regime precedente, cioè all’obbligo del reintegro;
  2. Per le aziende con meno di 6 dipendenti l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo è oggi fissato fino a un massimo di 6 mensilità di stipendio. Sinistra e CGIL non vorrebbero che esistesse un limite e che l’importo venisse fissato dal giudice sulla base di vari criteri, tra cui i carichi di famiglia, la gravità della violazione, l’età del lavoratore, ecc.
  3. Per i contratti a termine di durata inferiore ai 12 mesi si vuole ripristinare l’obbligo per il datore di lavoro di indicare la “causale”;
  4. Per i contratti di appalto il committente verrebbe considerato responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori in caso di infortuni e malattia del lavoratore.

Battaglia ideologica di CGIL e sinistra

Qual è la filosofia alla base dei referendum sul lavoro? Rendere i contratti più rigidi, così da evitare abusi. Il segretario della CGIL, Maurizio Landini, lo grida da tempo: l’occupazione cresce solo per via dei lavori precari. I dati lo smentiscono, ma nessuno si azzarda a metterne in discussione la veridicità delle sue affermazioni tra le grandi redazioni giornalistiche. Eppure, i numeri hanno la testa dura. Ci permettiamo di citare Lenin, che forse non sarà così antipatico a coloro che si battono per i quesiti sopra citati.

Il Jobs Act entrò in vigore nel marzo 2015 e da allora il tasso di occupazione in Italia è salito dal 55,7% al 63%. In valore assoluto, una crescita di 2 milioni 279 mila occupati fino a superare l’attuale soglia dei 24 milioni. E i contratti a termine in questo lungo decennio sono aumentati di appena 277 mila unità, a fronte di +2 milioni 240 mila per i contratti a tempo indeterminato o stabili.

In altre parole, 9 posti di lavoro su 10 tra i dipendenti sono risultati stabili. Ha senso per la sinistra ingaggiare una battaglia solamente ideologica che si scontra con la realtà dei fatti?

I referendum sul lavoro puntano a cancellare una legislazione che ha contribuito a creare occupazione. E la cosa incredibile è che oggi venga difesa dagli avversari di coloro che allora la introdussero, mentre a contestarla sono proprio quelli che scrissero le norme. Non sarebbe stato affatto vergognoso tornare sui propri passi nel caso in cui le norme si fossero nel frattempo rivelate controproducenti o inefficaci. Invece, è accaduto l’opposto.

Referendum lavoro, numeri positivi per giovani e donne

L’Italia resta fanalino di coda in Europa per tasso di occupazione, ma sta di fatto che esso sia salito al record storico del 63% tra la popolazione in età lavorativa (15-64 anni). Anche per l’occupazione femminile sono stati raggiunti massimi storici sopra il 54% e il tasso di disoccupazione tra i giovani fino a 24 anni è crollato dal 43% al 19%. Gli stessi inattivi, che ancora pesano per un terzo del totale, sono diminuiti di circa 1,8 milioni di unità, scendendo dal 36,3% al 32,9%. Tutti numeri che indurranno molto probabilmente gli italiani a restare perlopiù a casa o andare al mare, se il tempo lo consentirà. Serve una forte dose di ideologizzazione per recarsi ai seggi e votare a favore di referendum sul lavoro con obiettivi più politici che legati alla vita quotidiana di milioni di lavoratori.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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