Poche settimane ancora e Alberto Fernandez s’insedierà formalmente a Casa Rosada, divenendo il successore di Mauricio Macri alla presidenza dell’Argentina. I mercati restano in tensione, scontando qualcosa tra la ristrutturazione del debito sovrano e il default. L’esponente peronista non ha nascosto le sue intenzioni in campagna elettorale, sostenendo la necessità non solo di abbandonare le politiche di austerità perseguite dal centro-destra, ma persino di rinegoziare i titoli di stato, pur ambendo a farlo in modo “amichevole” con gli obbligazionisti.

La storia recente ci spinge a credere che per amichevole intenda che i creditori accettino senza fiatare le condizioni loro imposte dal processo di ristrutturazione.

L’Argentina torna peronista, subito super stretta sui dollari

L’ultima volta che Buenos Aires si comportò in aperta violazione delle condizioni contrattuali fu quando nel 2005 e nel 2010 rinegoziò i suoi “Tango bond”, imponendo a tutti il taglio del 70% del valore nominale, nonostante fosse diritto di ciascun obbligazionista decidere se accettare o pretendere il pagamento integrale. Ne seguì una battaglia legale decennale con i fondi “avvoltoi”, guidati da Elliott Management di Paul Singer.

Con la ristrutturazione, i titoli vennero emessi con annesse Clausole di Azione Collettiva (CAC). Esse prevedono che la ristrutturazione possa essere imposta a tutti i creditori, qualora abbiano accettato tanti in rappresentanza di almeno l’85% dell’intero debito sottoposto a ristrutturazione e almeno il 66,67% di ciascuna emissione. Dal 2016, sotto Macri le condizioni sono state un po’ allentate e i bond emessi con CAC meno favorevoli ai creditori, essendo sufficiente il via libera da parte del 66,67% dei detentori dell’intero debito e il voto favorevole di almeno il 50% di quelli per ciascuna emissione. In alternativa, il governo può ottenere il placet del 75% di tutte le obbligazioni coinvolte dalla ristrutturazione.

Due categorie di Tango bond per garanzie

Dunque, abbiamo due categorie di obbligazioni argentine: quella dei bond emessi fino alla fine del 2015 e l’altra dei bond emessi dal 2016.

La prima si mostra più sicura, essendo necessaria una percentuale superiore di obbligazionisti favorevole alla ristrutturazione, la seconda ha abbassato l’asticella e sarà sufficiente che oltre un terzo di tutti gli obbligazionisti e oltre la metà di quelli convocati per ciascun bond diano il loro assenso. Quali ripercussioni sulla probabile ristrutturazione che sarà avviata da Fernandez? Probabile che si segua una delle due strade: condizioni più favorevoli per i bond emessi fino al 2015, così da strappare il voto favorevole di una larga maggioranza dei creditori e aumentare le probabilità di coinvolgerli nelle perdite; nessuna ristrutturazione a carico di questi titoli, con le perdite che verranno caricate solamente sui bond emessi a partire dal 2016.

Dovremmo tendenzialmente escludere un trattamento troppo sfavorevole per gli obbligazionisti dei bond della seconda categoria, altrimenti difficilmente il governo otterrà il consenso alla ristrutturazione anche solo dei due terzi di loro. Il mercato continua a credere, comunque, che ci sarà una revisione delle condizioni contrattuali e con oneri maggiori a carico delle obbligazioni post-2015. Ad esempio, il bond 2033 in dollari (ISIN: XS0501194756) offriva venerdì scorso un rendimento di oltre il 22%, mentre quello con scadenza 2036, sempre in dollari (ISIN: US040114HG87), offriva il 20,50%, quotando a circa una dozzina di centesimi in meno sul mercato secondario, riflettendo le minori garanzie accordate dallo stato.

Obbligazioni Argentina, ristrutturazione via ‘haircut’?

In generale, comunque, un po’ tutto il mercato sovrano argentino ripiega anche successivamente alla vittoria di Fernandez, smentendo le previsioni di quanti pensavano che le perdite fossero state grosso modo tutte scontate. Il titolo a 5 anni si mostra stabile e rende sopra il 60%, mentre si apprezza di circa mezzo punto in una settimana quello in euro con scadenza nel 2033. Per il resto, il segno meno è lampante: dal -3,5% del bond a 100 anni al -7,25% accusato dal 2036 in dollari, passando per il -6,9% del 2023 e il -4,23% del 2021, sempre in valuta americana.

Il mercato sconta vistosamente un “haircut”, cioè il taglio del valore rimborsato, ma non è detto che alla fine il prossimo governo non opti per un più mite allungamento delle scadenze e/o un taglio delle cedole, così da ridurre le criticità sul piano della liquidità nei prossimi anni, mentre la sostenibilità del debito nel suo complesso sarebbe più solida di quanto forse immaginiamo.

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