Era il 31 dicembre del 1999, quando augurando ai russi un buon ingresso nel nuovo millennio, l’allora presidente Boris Eltsin annunciava a sorpresa che si sarebbe dimesso con qualche mese di anticipo rispetto alla scadenza naturale del suo secondo e ultimo mandato, con effetto a partire dalla mezzanotte. Le redini del Cremlino venivano trasferite nelle mani di Vladimir Putin, allora un 47-enne rampante, già funzionario del Kgb e semi-sconosciuto nel resto del mondo. Inizia l’era dello “zar”, tutt’oggi nel pieno dei suoi poteri.

Per molti, è diventato il riferimento di un Occidente smarrito dinnanzi alla perdita dei suoi valori tradizionali, per altrettanti una minaccia proprio ai valori su cui si reggono le liberaldemocrazie.

Ma com’è stato possibile per un uomo, pur dimostratosi di polso, essere rimasto così a lungo a capo di una Russia uscita dal comunismo nel 1991 e subito entrata in un’era di apparente caos infinito, caratterizzato dallo strapotere degli oligarchi e dal dilagare della criminalità organizzata? In buona parte, il successo di Putin lo si deve proprio alla sua capacità esibita di tenere a bada quanti si fossero arricchiti all’inverosimile con le “svendite” degli assets statali dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ristabilendo un minimo di autorità dello stato e di ordine.

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Tuttavia, è l’economia forse il fattore-chiave per capire come i russi abbiano accettato di sottomettersi a un nuovo zar. Quando Eltsin lasciava il Cremlino, la Russia era da poco andata in default sui debiti in valuta straniera. Per un dollaro USA servivano ormai 27 rubli, mentre fino al suo insediamento vi era un cambio fisso di 1:1, ovviamente del tutto irrealistico e impossibile da mantenere. La svalutazione aveva fatto il paio, nel corso degli anni Novanta, con l’altissima inflazione, che era arrivata nella prima parte del decennio a sfiorare il 2.500%.

Gli stipendi pubblici venivano pagati a intermittenza e il debito pubblico era esploso fino al 135% del pil, malgrado le massicce privatizzazioni avviate nel periodo, ma che erano avvenute sotto forma di regalie ad amici e parenti. Con Putin alla presidenza prima e come primo ministro successivamente, la musica cambia. Il pil passa da 210 a 1.670 miliardi di dollari, quello pro-capite (sempre in dollari) si moltiplica per 8. La crescita viene trainata dal boom delle quotazioni petrolifere. Il greggio ancora oggi incide, infatti, per il 40% delle intere esportazioni russe.

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E queste ultime si quintuplicano nel ventennio putiniano, tenendosi sempre su livelli maggiori delle importazioni, le quali anch’esse si sestuplicano, grazie al maggiore benessere diffuso. A seguito di questo trend, il cambio si stabilizza, per quanto con il crollo delle quotazioni petrolifere nel 2014 la Banca di Russia si trova costretta a far fluttuare il rublo liberamente sul mercato, di fatto svalutandolo fino al 60% in poco più di un anno. In definitiva, negli ultimi 20 anni si è registrato un -56% contro il dollaro, che si traduce in un accettabile (visti i precedenti) -2,3% medio all’anno. L’inflazione, che pure dopo il 2014 era tornata a doppia cifra per diversi mesi, resta contenuta e attualmente viaggia in area 4%.

Diverse criticità

Nel frattempo, il rapporto tra debito pubblico e pil crolla al 15%, segnalando una gestione accorta dei conti pubblici da parte del governo federale. Certo, il pil pro-capite resta nettamente inferiore a quello medio dei paesi OCSE e nel 2019 dovrebbe essersi attestato sui 12.600 dollari. Né si può certo affermare che la Russia sia ancora oggi un’economia di mercato a tutti gli effetti, caratterizzata dalla mano pesante dello stato e dalle interferenze piuttosto esplicite del governo negli affari privati.

Non mancano criticità come l’assenza di una vera macchina produttiva diversa dalle materie prime, nei fatti unici beni esportati da Mosca.

Infine, le tensioni con l’Occidente – da ultime sull’annessione della Crimea – non generano un senso di sicurezza per gli investitori stranieri, anche perché la Russia è oggetto di sanzioni USA e UE, che tagliano fuori il governo e le imprese dal mercato dei capitali esteri. Detto questo, il bilancio del ventennio putiniano appare positivo sul fronte dell’economia, specie se lo si raffronta con la scarsa capacità di gestione della transizione verso il capitalismo mostrata dal predecessore e che aveva spinto in non pochi a rimpiangere la stabilità dell’era sovietica. Forse, non ci sarà un secondo ventennio per lo zar, ma la sua era non sembra prossima alla fine. Il mandato scade formalmente nel 2024, ma chi può escludere che non si compia l’ennesima revisione costituzionale per far rimanere Putin al Cremlino per chissà quanti anni ancora?

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