Lo scontro sullo stato dei conti pubblici italiani tra governo Gentiloni e Commissione europea ha dell’incredibile e per un paio di ragioni. La prima è che mai fino ad ora Bruxelles si era spinta fino a invitare un governo membro a dire la verità ai propri elettori sul bilancio dello stato, i quali avrebbero “il diritto di sapere come realmente stanno le cose”. La seconda è che questo schiaffo viene dato proprio a ridosso delle elezioni politiche, quando la Commissione tende generalmente a tutelare l’immagine dei governi amici, come sarebbe certamente quello guidato da Paolo Gentiloni, specie quando di fronte vi è il rischio di vittoria di una formazione euro-scettica e molto temuta a Bruxelles, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

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L’affronto all’Italia è arrivato per mezzo del vice-presidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, fautore dell’austerità fiscale e stretto alleato della Germania di Angela Merkel. Come interpretare tali espressioni? Potrebbero esservi due linee di pensiero: la prima, che dopo il voto in Sicilia e con i sondaggi ad assegnare il vento in poppa al centro-destra, a Bruxelles si stia sgonfiando la paura per una vittoria degli euro-scettici, prevedendo un ritorno a Palazzo Chigi, pur forse per interposta persona, del collaudato Silvio Berlusconi. Non sarebbe per i commissari un campione di simpatia, ma quanto meno allontanerebbe lo spettro di colpi di testa a Roma. E così, la UE si sentirebbe relativamente serena nel potere bastonare il governo uscente e avvertire tutti i giocatori in campo, rivolgendosi direttamente agli italiani, che di fare campagna elettorale con proposte fiscalmente lassiste non se ne parla.

Commissari puntano a commissariarci

L’altra interpretazione sarebbe la seguente: l’Italia ha un debito pubblico al 133% del pil, un deficit che ristagna, quello strutturale che tende persino a salire, nonostante la BCE di Mario Draghi abbia azzerato i tassi e sia praticamente l’unica, oltre alle stesse banche italiane sussidiate con liquidità di Francoforte, a comprarsi i titoli di stato tricolori.

Nemmeno con una crescita globale ed europea robusta, poi, il nostro pil sale in misura ragguardevole, fermandosi a un massimo del +1,5% quest’anno, salvo rallentare già dall’anno prossimo. Stando così le cose, i commissari e la stessa Merkel sarebbero scettici sulle reali probabilità che l’Italia avrebbe di superare la crisi in cui è entrata da molti anni ormai, rischiando di travolgere l’euro. Ecco, quindi, che la batosta all’indirizzo del governo italiano servirebbe per preannunciare il menu che verrà servito dopo le elezioni: una manovra correttiva.

Fosse solo questo, non ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. In fondo, anche la scorsa primavera i commissari hanno chiesto e ottenuto da Roma una manovra correttiva di 3 miliardi e rotti, ma la questione vera sarebbe un’altra: l’Europa pretende che finisca una volta per tutte la politica della flessibilità fiscale, che i conti pubblici italiani chiudano in pareggio, che si facciano le riforme per stimolare la crescita e che il rapporto debito/pil scenda finalmente e decisamente, anche perché presto si chiuderanno i rubinetti della BCE e i tassi inizieranno ad alzarsi. E nessuno a Francoforte e a Bruxelles ha intenzione di rivedersi lo stesso film del 2011 con la crisi dello spread, magari con gli stessi protagonisti di allora.

Non c’è più fiducia sulla capacità degli schieramenti “tradizionali” di affrontare di petto il declino dell’Italia. Da qui, l’indifferenza sostanziale verso chiunque vinca o perda, purché al governo non arrivino i grillini. Anzi, i commissari punterebbero a questo punto su uno scenario post-elettorale confuso, l’unico che assicurerebbe loro maggiore capacità di intervento diretto a Roma, sia forzando i principali partiti in Parlamento a sostenere un loro uomo gradito (l’ipotesi di Mario Draghi premier è più che concreta), sia inducendoli ad approvare alcune misure impopolari, ma che essi considerano fondamentali per la ripresa economica e il ripristino della fiducia verso il sistema-paese.

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Prelievo forzoso e patrimoniale?

E di quali misure parliamo? Una è già scritta, sebbene venga rinviata di anno in anno. Parliamo dell’aumento dell’IVA, che servirebbe a racimolare miliardi necessari per tendere al pareggio di bilancio. Le clausole di salvaguardia sono state in parte coperte da Gentiloni, in parte rinviate al 2018. Bruxelles propina da anni lo spostamento del carico fiscale dai redditi ai consumi. Non è tutto, perché oggetto degli appetiti UE vi è quell’immenso patrimonio degli italiani, specie immobiliare, il quale venendo tassato, garantirebbe un gettito stabilmente più elevato al Tesoro. Insomma, con la politica italiana debole, dopo le elezioni tirerebbe aria di tassa patrimoniale. E poiché qualcosa andrebbe recuperata piuttosto velocemente per segnalare la svolta, i commissari potrebbero imporre a chicchessia un prelievo forzoso sui conti bancari degli italiani, che alla fine del settembre scorso ammontavano a oltre 1.720 miliardi, più del 100% del pil. Stangandoli per un punto senza esclusioni, si otterrebbero nell’immediato 17 miliardi freschi per abbattere le nuove emissioni di debito.

Ieri, è stato pubblicato un paper della BCE, nel quale Francoforte chiede che anche i conti sotto i 100.000 euro vengano intaccati dalle perdite nel caso di “bail-in”. Ora, questo non ha niente a che vedere con il possibile prelievo forzoso, che sarebbe formalmente una tassa e in quanto legittima sui conti di ogni entità. Tuttavia, l’opinione dell’istituto segnala due cose: una, che toccare i piccoli risparmi non sarebbe più considerato un tabù in Europa; due, che Bruxelles potrebbe imporre al prossimo governo di salvare il sistema bancario con perdite generalizzate anche su obbligazionisti senior e persino sui correntisti minori.

La scarsa solidità delle banche italiane viene temuta per le possibili ripercussioni in tutta l’area e considerata alla base della mancata ripresa dell’economia del Belpaese. E proprio la BCE, tra abbattimento a tappe forzate degli Npl e misure restrittive allo studio per la detenzione dei bond sovrani, sta andando vistosamente verso una direzione assai sgradita alle banche italiane.

Siamo al giro di boa, al regolamento dei conti tra Italia e UE. La prima ha goduto di fin troppi anni per fare le riforme e risanare il bilancio pubblico, non riuscendo a centrare quasi alcun obiettivo. Senza le politiche di Draghi, non ci sarebbe stata alcuna discesa del rapporto debito/pil, che sarebbe salito, invece, a quasi il 160% e con un deficit al 6,6%, secondo le analisi di Economia Reale di Mario Baldassari, ex viceministro del governo Berlusconi, con l’economia italiana a rimanere in recessione e la disoccupazione a schizzare sopra il 14%. Di ulteriori concessioni non ne godrà più, nemmeno speculando sullo spauracchio dell’euroscetticismo dilagante. Se tutto ciò è vero, allora saremmo prossimi al commissariamento di fatto, a una Troika sotto mentite spoglie, come e più dei tempi del governo Monti. (Leggi anche: Troika sempre più vicina, scenario greco per l’Italia dopo le elezioni)