Le principali banche centrali del pianeta potrebbero imbattersi presto in un rischio davvero inatteso: la stagflazione. Il termine è fuori moda in Occidente dalla fine degli anni Settanta, quando lo shock petrolifero, conseguente al forte rialzo delle quotazioni del petrolio sia nel 1973 che nel 1979, provocò un’impennata dell’inflazione in tutte le economie importatrici, contestualmente a un rallentamento dei loro tassi di crescita, che quasi si azzerarono o lasciarono il posto persino alla recessione. A lanciare l’allarme è stata con un report Bank of America-Merrill Lynch, secondo cui gli investitori dovrebbero quanto meno prepararsi a uno scenario di disoccupazione relativamente alta, crescita bassa e inflazione alta.

Per quanto il rischio non sia contemplato nello scenario di base, chiariscono gli analisti dell’istituto, il mercato potrebbe desiderare proteggersi contro di esso.

Che dicono i dati

Ma è realistico ipotizzare uno scenario simile, quando i governatori centrali di mezzo mondo stanno azionando da anni le loro stamperie, nel tentativo disperato di impedire lo scivolamento delle rispettive economie nella deflazione? A guardare i dati odierni, diremmo che si tratterebbe di una stramberia il solo pensiero. L’inflazione a febbraio nell’Eurozona è scesa al -0,2% su base annua, mentre negli USA è ancora all’1% e in Giappone poco sopra lo zero. La BCE ha tagliato le stime a marzo per quest’anno dall’1% atteso a dicembre allo 0,1%, ovvero di ben il 90% in appena 3 mesi. Le quotazioni dell’oro, pur in rialzo di quasi il 15% dall’inizio dell’anno, non stanno registrando una performance così eclatante da destare il sospetto che gli investitori stiano rifugiandosi nel metallo per ripararsi da un’avvertita perdita del potere di acquisto. Anzi, su base mensile mostrano un leggero ripiegamento.      

Rendimenti bond ancora bassissimi

Lo stesso “break-even” tra rendimenti dei Treasuries a cedola fissa e quelli legati all’inflazione per la scadenza a 5 anni resta a livelli contenuti, ovvero all’1,54%, in rialzo di appena lo 0,26% rispetto a un mese fa.

Si tratta di un differenziale monitorato dal mercato per stimare l’inflazione attesa in un arco di tempo medio. Le aspettative si starebbero surriscaldando, ma di poco e al di sotto del target del 2% della Federal Reserve. Gli stessi rendimenti “glaciali” dei bond pubblici e privati segnalerebbero aspettative molto fredde sulla crescita dei prezzi. Ma allora quella di BofA è stata una “boutade”? Non esattamente. Per quanto l’istituto americano abbia precisato che non si tratterebbe di un rischio elevato, eppure esiste. E ancora una volta, seguendo quanto accade sul mercato, potrebbe essere il mercato del petrolio a provocare una nuova ondata di stagflazione.

Quotazioni petrolio verso un nuovo rally?

Alzi la mano chi si attendesse due anni fa il crollo delle quotazioni di oltre il 70%? Eppure, l’eccesso di offerta era prevedibile, dati i ritmi delle estrazioni di greggio dai pozzi. Chi ci impedisce di pensare che i livelli dei prezzi attuali non possa portare presto a un problema opposto, ovvero alla chiusura di numerose attività estrattive, tale da ridurre eccessivamente l’offerta e da provocare un rimbalzo vigoroso delle quotazioni? In poche settimane, tra la fine di gennaio e la metà di marzo, queste sono cresciute già del 50%, anche se il rally sembra essersi arrestato. In precedenti articoli, vi abbiamo chiarito come sarebbe altamente improbabile che le quotazioni riescano a sfondare stabilmente quota 40-45 dollari. Immaginiamo, però, per un attimo che si abbia un assorbimento dell’eccesso di offerta, vuoi per una domanda migliore delle attese, vuoi anche per un calo della produzione più marcato negli USA e/o al taglio concordato tra i membri dell’OPEC.      

Cosa accadrebbe con un’impennata del greggio

Se improvvisamente un barile costasse il doppio, arrivando a 70-80 dollari, le ripercussioni sull’inflazione sarebbero visibili, mentre la crescita economica ne risentirebbe negativamente in tutto l’Occidente.

Le banche centrali potrebbero reagire come negli anni Settanta, ovvero astenendosi dall’avviare una stretta monetaria immediata, in modo da sostenere l’economia e di fare attecchire le aspettative d’inflazione, ma come allora, la situazione potrebbe sfuggire di mano. Nel 1980, la crescita dei prezzi superò il 13% negli USA e il 20% in Italia. Per fortuna, quei livelli non furono più toccati, ma il loro ridimensionamento non fu facile, bensì frutto di strette dolorose, che tra il 1981 e il 1982 fecero entrare l’America in recessione.

Quali assets comprare con stagflazione?

Difficilmente si arriverebbe a un’inflazione a due cifre, mentre per potere parlare di stagflazione BofA chiarisce che il pil USA dovrebbe crescere meno dell’1,4%, mentre il trend dei prezzi di lungo termine registrare un aumento trimestrale di almeno il 2,3%. Secondo più di un analista, quanto paventato dall’istituto non sarebbe un rischio così lontano, se si considera che nell’ultimo trimestre del 2015 il pil americano è cresciuto di appena l’1%, mentre a gennaio l’inflazione di lungo termine si è attestata all’1,3%, doppiando lo 0,7% del mese precedente. Stando così le cose, potremmo stare relativamente tranquilli sul fatto che non dovremmo tornare ai livelli di stagflazione di fine anni Settanta-inizio anni Ottanta. In ogni caso, chi volesse prepararsi allo shock, sempre che crediate che sia reale, deve sapere che in questi casi gli assets che mostrano una performance sopra la media sono i Treasuries e l’oro, mentre il mercato azionario e il dollaro diventano relativamente deboli.      

BCE tollererà inflazione Eurozona sopra 2%

Qualsiasi considerazione non potrebbe prescindere dalla specificità del momento attuale. Oggi, come mai nella storia prima, siamo dinnanzi a una politica monetaria ultra-espansiva, che ha già spinto ai massimi storici i prezzi dei bond e sostenuto l’azionario. Ulteriori guadagni su questi mercati sarebbero molto improbabili, mentre l’oro sarebbe l’asset maggiormente appetibile, dato che ancora quota a oltre un terzo al di sotto dei livelli massimi toccati nel settembre del 2011.

All’ultimo board di marzo, Mario Draghi ha spiegato in conferenza stampa che il target di un’inflazione di quasi il 2% per l’Eurozona deve essere considerato nel medio termine e “simmetrico”, per cui essendo stata la crescita dei prezzi inferiore in questi ultimi 3 anni, è ipotizzabile e accettabile che l’istituto tolleri un’inflazione sopra al 2% per un certo periodo. In altre parole, Francoforte ci spiega che per qualche anno potrebbe anche accettare un’inflazione nell’area intorno al 3-3,5%, senza reagire con una politica monetaria più restrittiva. Se questi fenomeno convivesse con una crescita persistentemente bassa nell’Eurozona, magari non sarebbe quella stagflazione di cui parla BofA, ma qualcosa che ci assomiglia.