Scorrendo i titoli di alcuni tra i principali giornali italiani, tra ieri e oggi troviamo diversi riferimenti critici alle dichiarazioni rese dal governatore della BCE, Mario Draghi, all’Europarlamento, le ultime prima delle elezioni europee di maggio. Egli ha esposto in maniera esaustiva come forse mai prima il concetto di “sovranità monetaria”, spiegando che molti paesi dell’Eurozona in questi anni l’avrebbero riconquistata grazie alla moneta unica, mentre con le rispettive monete nazionali alcuni di loro l’avevano persa.

Perché? Erano costretti ad agganciarle al marco tedesco, sostanzialmente finendo per dipendere dalla politica monetaria della Bundesbank, ossia dai tassi tedeschi. Come mai? L’alternativa nei loro casi era svalutare, cosa che portava ad alti tassi di inflazione e anche di disoccupazione superiori a quelli che non svalutavano. Con la nascita della BCE, continua, questi paesi hanno riconquistato sovranità e credibilità. Un argomento, che Draghi aveva esposto già a dicembre, nell’evidente tentativo di offrire risposte a un’opinione pubblica a crescente trazione “sovranista”, specie in Italia. Allora, aveva fatto notare come almeno oggi, con la BCE, tutti gli stati hanno voce in capitolo nella fissazione dei tassi e nell’assunzione delle altre decisioni di politica monetaria.

Draghi e la mezza verità sull’Italia della lira dipendente dai tassi della Germania

Non è tutto, perché il governatore è andato avanti sostenendo che uno stato perda la sua sovranità, quando ha un debito troppo alto. In quel caso, i mercati prendono il controllo, scrutinando ogni sua azione. E trattasi, precisa, di soggetti non votanti, esterni alla democrazia. E rispondendo alla domanda di un europarlamentare catalano, ribatte che per ridurre il debito pubblico, la via maestra non è la politica di austerità fiscale, quanto la crescita perseguita con le riforme. Così hanno fatto la Germania nei primi anni 2000 e anche altri paesi e aggiunge che negli ultimi 10 anni, tutti i membri dell’Eurozona avrebbero perseguito politiche di bilancio ragionevoli, la differenza l’avrebbero fatta, appunto, i diversi tassi di crescita.

Ergo: bisogna fare le riforme economiche per crescere e abbattere il debito.

Qualche quotidiano ha scritto che Draghi avrebbe quasi sponsorizzato il potere di ricatto dei mercati nei confronti degli stati, schierandosi contro il concetto di sovranità monetaria. Le sue dichiarazioni sono andate, invece, nel senso esattamente opposto. Egli ha espresso il convincimento che un paese rischia di perdere la sua sovranità, quando ha un debito troppo alto e finisce nel mirino dei suoi creditori finanziari. Inoltre, ha spiegato come la sovranità non coincide con l’emissione di una moneta propria, dato che anche prima dell’euro non tutti gli stati si mostrarono sovrani.

L’Italia della lira

Per capire le ragioni del governatore, analizziamo il caso dell’Italia. Prima dell’euro, contrariamente a quanto spesso crediamo, la lira non era libera di fluttuare sui mercati, bensì agganciata alle altre monete europee aderenti al Sistema Monetario Europeo (SME) e contro le quali poteva oscillare all’interno di una certa banda prefissata e che per noi fu un po’ più ampia, tenuto conto delle nostre peculiarità negative sull’inflazione. Questo fu lo schema seguito alla fine di Bretton Woods nel 1971, quando l’America non fu più in grado di assicurare la piena convertibilità del dollaro in oro e gli stati dell’orbita occidentale si trovarono costretti improvvisamente a trovare un altro sistema valutario da adottare.

Cosa succedeva con la lira nello SME, nato nel 1979? La Germania, prima economia europea e anche la più solida, batteva nel continente i tempi della politica monetaria, per cui ogni decisione sui tassi adottata dalla Bundesbank si rifletteva inevitabilmente sulle azioni delle altre banche centrali. Guardando al grafico sui tassi, notiamo proprio questo: quando Francoforte alzava il costo del denaro, Bankitalia seguiva.

Se così non fosse stato, i capitali si sarebbero spostati in massa dall’Italia verso la Germania, la lira si sarebbe deprezzata e non sarebbe più restata agganciata al marco tedesco e alle altre monete SME. In realtà, nemmeno la sincronizzazione sui tassi da sola permise alla lira di mantenersi stabile contro il marco, in quanto i più alti tassi d’inflazione registrati dall’Italia rispetto alla Germania (e non solo) premevano al ribasso sui tassi di cambio, con la necessità per Bankitalia di svalutare, onde evitare l’assottigliamento delle riserve valutarie. E ciò accadde per ben sette volte tra il 1979 e il 1993.

Come la Germania fregò l’Italia pure con la lira negli anni Ottanta

Senonché, le svalutazioni frequenti della lira a loro volta sostennero i tassi d’inflazione, i quali colpirono stipendi e salari da un lato e la stessa credibilità della nostra moneta dall’altro, con la conseguenza che: 1) s’innescò un circolo vizioso tra inflazione-svalutazione-inflazione; 2) la politica monetaria di Bankitalia divenne sempre più dipendente dalle mosse della Bundesbank, le quali a loro volta risentivano di quelle di Federal Reserve e Bank of England; 3) il debito pubblico emesso in lire fu percepito poco rassicurante e quei pochissimi investitori stranieri che lo compravano pretendevano tassi alti.

La lettera del divorzio tra Tesoro e Bankitalia

Nel febbraio 1981, l’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, inviò una lettera al governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi, avvertendolo che non avrebbe più avuto il dovere di acquistare il debito pubblico rimasto invenduto alle aste. Perché e cosa accadeva sino ad allora? L’Italia, come accennato sopra, registrò con lo scoppio delle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979 tassi d’inflazione ben superiori e persistenti rispetto alla media occidentale. Per questo, la lira crollò verticalmente, nonostante fino al 1966 fosse stata premiata come tra le monete più affidabili al mondo per la sua stabilità.

I titoli di stato emessi da Roma non avevano appeal, in quanto gli investitori stranieri temevano di rimetterci con un’eventuale svalutazione del cambio entro la data di scadenza o di disinvestimento, mentre quelli domestici erano dubbiosi sul rendimento reale offerto, visto che agli inizi degli anni Ottanta la crescita tendenziale dei prezzi nel nostro Paese arrivò a superare il 20%.

Lo stato italiano non trovava sul mercato sufficiente domanda per i suoi titoli, per cui Palazzo Koch si trovava spesso costretto a coprire la parte invenduta. Ciò finiva, però, per monetizzare il debito, cioè per accrescere il problema dell’inflazione da un lato e la già elevata irresponsabilità fiscale dei governi dall’altro. Con la famosa lettera “del divorzio tra Tesoro e Bankitalia” del 1981, Andreatta intese spezzare quel circolo vizioso, obbligando il governo a mostrarsi fiscalmente più responsabile, cioè a spendere di meno e/o ad aumentare le entrate, altrimenti avrebbe fatto i conti con il costo reale delle sue azioni, in quanto senza l’aiuto di Bankitalia, i rendimenti a cui i titoli del debito pubblico vennero emessi iniziarono ad essere di mercato, non più repressi com’era stato sino ad allora.

Perché il debito pubblico italiano affonda le sue radici nel sindacalismo esasperato

Cosa accadde in concreto? Andreatta si sbagliò, nel senso che i governi del tempo, anziché reagire al divorzio con una politica fiscale più prudente, finirono per accettare passivamente l’esplosione del costo del debito. E così, tra la Prima e la Seconda Repubblica, la spesa per interessi in Italia schizzò fino a un massimo del 12% del pil, assorbendo quasi un quarto dell’intera spesa pubblica. A titolo di confronto, nel 2017 (e verosimilmente anche nel 2018) abbiamo speso per interessi “solo” il 3,8% del pil, pari a 65,6 miliardi di euro. Vero fu, però, che la mossa del ministro aiutò l’Italia a combattere l’inflazione, la quale scendeva all’unica cifra nel 1985 dopo ben 13 anni. Tuttavia, il debito pubblico italiano dalla metà degli anni Ottanta iniziò ad auto-alimentarsi per via degli alti interessi pagati agli investitori, mentre prima si manteneva piuttosto stabile rispetto al pil, semplicemente perché l’inflazione a due cifre aumentava il pil nominale, ossia la base del rapporto.

Le critiche alla lettera di Andreatta a Ciampi

Sono in tanti oggi a maledire quella decisione di Andreatta, sostenendo che sarebbe all’origine dell’esplosione del nostro debito. Nulla di più ingenuo. La fine della monetizzazione del debito da parte di Bankitalia permise all’Italia di tornare a registrare una crescita dei prezzi accettabili. L’inflazione è un costo per le famiglie e ricade particolarmente sulle spalle dei redditi fissi e di quelli più bassi, sottraendo potere di acquisto per i consumi. In pratica, lo stato con l’inflazione alle stelle stava indebitandosi a costi reali negativi, ma drenando risorse dall’economia privata e, soprattutto, dalla parte economicamente più debole (bassi redditi e disoccupati) e anche più sana (risparmiatori) della popolazione. In altre parole, stava “tassando” gli italiani occultamente, uccidendo il risparmio.

E l’alta inflazione a sua volta generò la crisi di credibilità della lira, con la necessità per Bankitalia di svalutarla ogni volta che il differenziale d’inflazione cumulato con la Germania montava a livelli incompatibili con la stabilità delle riserve valutarie. Cosa sarebbe successo senza quella lettera? Bankitalia avrebbe continuato a monetizzare il nostro debito, l’inflazione in Italia sarebbe rimasta a due cifre anche forse per tutti gli anni Ottanta e oltre e per combatterla sarebbero stati alzati i tassi d’interesse a livelli ancora più alti, per cui l’economia privata sarebbe rimasta soffocata da un mix di prezzi e tassi alle stelle, con gli investimenti nazionali e i risparmi decimati. Dall’estero, nessuno avrebbe puntato una sola lira di capitale sul nostro Paese, a causa di una lira del tutto screditata. Lo stato avrebbe teoricamente continuato forse a chiudere i bilanci con un debito pubblico costante e sotto il 60% del pil, ma l’illusione ottica sarebbe stata pagata a carissimo prezzo.

Saremmo stati più sovrani con il prosieguo del matrimonio tra Bankitalia e Tesoro? Dato quanto accaduto nel decennio precedente all’invio della lettera, diremmo che quel concetto di sovranità non coincise con il benessere della nostra economia. Nessuno può anche solo ipotizzare che sia sano che i prezzi crescano del 10-15-20% all’anno, perché a queste condizioni nessuno investe, nessuno produce e nessuno rischia nemmeno di entrare nel mercato del lavoro, essendo ignoti i valori futuri reali di profitti, salari e rendimenti. Il sacrificio che ci sarebbe stato imposto – e che fu imposto fino agli inizi degli anni Ottanta – per illuderci di possedere sovranità monetaria avrebbe superato di gran lunga quello che oggi crediamo di sostenere per avere aderito all’euro, rinunciando alla lira. Quella lettera di Andreatta salvò l’Italia da un destino molto peggiore che altrimenti ci avrebbe atteso. L’unico errore che potremmo oggi addebitare all’allora ministro fu di aver creduto che i governi si responsabilizzassero. Aveva sottovalutato il tasso di sprovvedutezza e di clientelismo esasperato delle maggioranze del pentapartito.

La sovranità monetaria da sola non combatte la crisi, la provoca 

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