C’era un tempo in cui all’estero gli italiani incappavano inevitabilmente nel pregiudizio di essere “mafiosi”. Non che sia scomparso, ma negli ultimi anni ha lasciato spazio a un altro cliché, quello di essere il paese dei governi spendaccioni, del debito pubblico. Non ha giovato l’essere stati sulle copertine dei quotidiani finanziari di tutto il mondo dal 2011 in poi proprio per la crisi dello spread e il rischio di default. Quando giornalisti ed economisti esteri escono dalla pigrizia che spesso li contraddistingue nell’analizzare il nostro Paese e si concentrano sui dati reali, scoprono spesso con stupore che l’Italia registra avanzi primari sin dal 1992 con la sola eccezione del 2009, anno di massima crisi per la nostra economia.

E allora, molti di loro sono costretti ad andare indietro nel tempo per risalire alle vere cause dell’immensa montagna di debito pubblico da 2.300 miliardi di euro, circa il 131% del nostro pil attuale. I governi saranno certamente stati spendaccioni, ma non quelli della Seconda Repubblica, sebbene abbiano continuato a esitare deficit di bilancio, dovendo pagare ai creditori una mole enorme di interessi.

Attenti, nessuna scusante, stiamo semplicemente affermando che ad avere le mani bucate non siano stati gli ultimi governi dal ’92 ad oggi, bensì quelli spesso rimpianti dagli italiani, perché facevano tanto “classe dirigente” e “politici di statura”. E vediamo cosa furono capaci di fare questi grandi statisti, molti dei quali travolti da tangentopoli. Esistono due peccati originali che possono ascriversi all’esplosione del debito pubblico italiano. Il primo risale alla metà degli anni Sessanta, quando la spesa pubblica iniziò a decollare dal 30% del pil, superando un decennio dopo il 40%. Nulla di inconsueto nel contesto internazionale, perché tutte le economie occidentali registrarono lo stesso trend, con una differenza: da noi le entrate rimasero costanti rispetto al pil, altrove seguirono lo stesso corso delle uscite.

Cosa stava accadendo? Il sistema fiscale italiano era certamente inefficiente, tanto da essere dovuto riformato nel 1973. Tuttavia, l’impennata del deficit fu una scelta politica, conseguenza dell’abbandono della disciplina fiscale perseguita dai governi centristi dal Secondo Dopoguerra, in coincidenza con la nascita dei governi di centro-sinistra, la cui ambizione consisteva nell’ammodernare l’Italia, rendendola un’economia più equa e al passo con i tempi. Nel 1969, la riforma delle pensioni del governo Rumor, voluta dal ministro del Lavoro e della Previdenza, il socialista Giacomo Brodolini, poco prima di morire per un tumore incurabile, scardinava il sistema, agganciando gli assegni all’inflazione e ai salari e consentendo l’uscita anticipata dal lavoro. Fino ad allora, l’età pensionabile effettiva media per gli italiani era di 65 anni, successivamente iniziava a diminuire, toccando il punto più basso di 58 anni nel 1994. Era solo l’inizio dell’esplosione della spesa pensionistica e del debito pubblico.

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L’illusione di poter vivere a debito senza pagarlo

Il potenziamento dello stato sociale avveniva sostanzialmente in deficit. Con la prima crisi petrolifera del 1973, anche l’economia italiana entra nell’era della stagflazione, caratterizzata da un rallentamento della crescita del pil e un’esplosione dei prezzi. I due fenomeni nell’insieme non incisero negativamente sul debito, anzi il suo rapporto con il pil veniva mantenuto stabile grazie proprio all’inflazione a doppia cifra, che nella seconda metà degli anni Settanta rimase di 10 punti superiore al livello dei tassi, i quali divennero negativi in termini reali. Gli italiani, con un anticipo di ben 40 anni rispetto alle mosse della BCE, vivevano la loro repressione finanziaria e lo stato poteva indebitarsi senza nemmeno temere un’impennata dei costi. Poiché a tassi così bassi non corrispondeva una domanda di titoli del debito sufficiente sul mercato, la Banca d’Italia fu costretta ad acquistare tutto l’invenduto alle aste.

Nel frattempo – era il 15 giugno 1975 – il presidente di Confindustria, Gianni Agnelli, e i sindacati firmano l’accordo sulla scala mobile, un sistema di indicizzazione automatica di salari e stipendi all’inflazione, attraverso i famosi punti di contingenza. La logica alla base dei successivi rinnovi contrattuali fu doppia: tutti gli stipendi, indipendentemente dalla categoria lavorativa, dovevano essere rivalutati completamente al tasso d’inflazione vigente. Inoltre, tutti i livelli professionali ottennero gli stessi aumenti salariali. In pratica, ebbe inizio l’appiattimento degli stipendi tra i vari livelli e al contempo i settori ad alta produttività (industria) finirono per finanziare i settori a minore produttività (terziario), innescando una corsa all’egualitarismo, distruttiva per il mercato del lavoro in Italia e i cui effetti sostanzialmente sono avvertiti sino ad oggi.

La scala mobile non fu la causa dell’alta inflazione in Italia, che agli inizi degli anni Ottanta superò il 20%. L’esplosione dei prezzi, dicevamo, fu causata dalle due crisi petrolifere, quella già citata del 1973 e la successiva del 1979. Tuttavia, questo meccanismo di indicizzazione dei prezzi, rimasto in auge sino al decreto di San Valentino del 1984 varato dal governo Craxi, non ne permise la decelerazione, facendo restare l’Italia più a lungo delle altre economie occidentali su livelli di inflazione marcatamente più alti. Cosa c’entra questo con il debito? L’alta inflazione diede ai governi del tempo l’illusione che fosse possibile continuare a spendere in deficit senza far salire il grado di indebitamento dello stato. Poiché una crescita dei prezzi a doppia cifra e alimentata anche dalla monetizzazione del debito da parte di Bankitalia stava innescando una spirale mortale per la nostra economia, costretta di continuo a svalutare la lira per adeguarla ai livelli dei prezzi sempre più alti, si resero necessarie negli anni Ottanta due misure drastiche e ad oggi molto chiacchierate: la lettera del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro del 12 febbraio 1981 e il decreto sulla scala mobile.

La verità scomoda per l’Europa sul debito pubblico italiano, esploso per salvare l’Occidente

La reazione (insufficiente) degli anni Ottanta

La prima fu inviata dal ministro del Tesoro di allora, Beniamino Andreatta, con cui si comunicava al governatore Carlo Azeglio Ciampi di non avere più l’obbligo di acquistare i titoli di stato rimasti invenduti alle aste. Qual era la logica? Se i governi vogliono fare deficit, almeno che paghino ai tassi di mercato. Solo così si daranno una regolata e si spezzerà quel circolo vizioso tra monetizzazione del debito e alta inflazione. Purtroppo, si concretizzò solo una parte del ragionamento, vale a dire l’esplosione dei tassi, anche per via della stretta monetaria attuata dalla Federal Reserve di Paul Volcker sotto la presidenza Reagan, così come della Bank of England durante i governi Thatcher. I governi italiani di allora, invece, non furono capaci di tagliare la spesa e continuarono sostanzialmente ad accumulare gli stessi deficit, con in più i costi derivanti dai maggiori rendimenti dovuti sui titoli emessi. Quando nel 1984 fu varato il decreto che sostanzialmente abrogava gran parte della scala mobile nel 1984 e l’inflazione anche per ciò rallentò la sua corsa, si ebbe un altro colpo per i conti pubblici italiani, che non poterono nemmeno giovarsi dell’aumento gonfiato del pil nominale.

Chi oggi accusa, in particolare, il divorzio tra Tesoro e Bankitalia quale causa dell’esplosione del debito confonde causa con effetto. La lettera fu una necessità per salvare l’economia dal precipizio verso cui era avviata a cadere, così come la fine della scala mobile, approvata coraggiosamente dalla maggioranza degli italiani con il referendum del 1985, interveniva per spezzare la corsa dei prezzi, rovinosa proprio per il potere di acquisto dei redditi. E proprio quel referendum determina la fine politica del PCI, che solo un anno prima raggiungeva l’apice dei consensi alle elezioni europee, superando per la prima volta la DC. Gli italiani avevano compreso che la sinistra massimalista aveva preso in ostaggio il Paese senza nemmeno essere al governo e lo stava portando alla rovina. La causa originaria del nostro debito non va ricercata nelle soluzioni che sono state attuate per tentare di arrestarne l’esplosione, quanto nell’incapacità dei governi sin dagli anni Sessanta di finanziare misure pur socialmente utili con le entrate. Agli italiani fu venduto per un paio di decenni il sogno di una vita a costo zero e l’inflazione a doppia cifra aveva creato l’illusione che ciò fosse possibile e sostenibile.

Non è inutile ricordarlo, non fosse altro che per una retorica molto diffusa sul mito della sovranità monetaria, che ci consentirebbe oggi di vivere a sbafo, semplicemente stampando lire. Avere una moneta sovrana si rivelerebbe sì più ottimale, rispondendo ai fondamentali della nostra economia, purché non si finisca per ripetere gli errori fatali di cui sopra e i quali hanno colpito a morte la reputazione dell’Italia sui mercati finanziari, di cui ancora paghiamo le conseguenze in termini di spread e diffidenza degli investitori verso i nostri titoli. Non esistono pasti gratis. Quelli presunti serviti nella seconda metà della Prima Repubblica li stiamo pagando ancora adesso a interessi da usura. E tutto ebbe origine dal malinteso senso di egualitarismo di un sindacato radicale, che trovò persino orecchie attente tra gli stessi industriali, devastante per la nostra disciplina fiscale e per il mercato del lavoro, i due punti deboli dell’economia italiana ancora oggi.

Perché il debito pubblico ci costerebbe di più con la lira

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