Ennesimo rinvio per il salvataggio Alitalia, commissariata ormai 30 mesi fa e ancora in cerca di un cavaliere bianco. Anche la “deadline” del 15 ottobre dovrebbe slittare, data l’assenza di soggetti industriali disposti a rilevare quote significative della compagnia aerea. Anzi, Atlantia ha minacciato velatamente di sfilarsi con l’invio di una lettera al governo, datata 2 ottobre. Il fondo della famiglia Benetton ha giudicato il piano di rilancio “un rischioso salvataggio con esiti limitati nel tempo” e ha fatto presente all’esecutivo di non essere nella possibilità di aiutare Alitalia con investimenti propri, nel caso in cui gli fossero revocate le concessioni autostradali.

Parliamo del tragico crollo del Ponte Morandi a Genova del 14 agosto 2018, rientrante nella tratta gestita da Autostrade per l’Italia dei Benetton e che il Movimento 5 Stelle ritiene (a parole) debbano perdere le concessioni.

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Sul piano strettamente finanziario, Atlantia avrebbe ragione. Non puoi chiedere a un soggetto industriale di accollarsi il salvataggio oneroso di una compagnia e al contempo colpirlo in uno dei suoi business più floridi. Delle due l’una: o l’ingresso in Alitalia viene considerato un “risarcimento” informale dei Benetton allo stato italiano o il governo rinuncia al salvataggio per mano dei Benetton e procede parallelamente con la revoca della concessione ad Autostrade, ma dovendo trovare altri soggetti al loro posto.

Altro prestito dei contribuenti alla compagnia

Tornando ad Alitalia, la situazione si complica anche su altri piani. Il prestito ponte da 900 milioni di euro è stato utilizzato in gran parte e alla fine di agosto risultavano in cassa solo 380 milioni, peraltro inclusi i ricavi delle vendite di biglietti aerei per le prenotazioni relative ai prossimi mesi. Dunque, o si trova una soluzione immediata di tipo industriale o lo stato dovrà non solo prorogare il prestito, ma anche integrarlo per altri 300-350 milioni, stando ai calcoli che circolano in questi giorni.

Difficile immaginare che la Commissione UE se ne stia mani in mano, perché solo per un breve periodo il prestito a una società non viene considerato aiuto di stato.

Ad oggi, sappiamo che di soli interessi (al 10%) il prestito costa alla compagnia circa 150 milioni, soldi che lo stato vorrebbe trasformare in una partecipazione al 15% nel capitale sociale. Già, ma il restante 85%? Ferrovie dovrebbe entrare con un altro 35%, portando la quota pubblica al 50% o poco più, mentre Delta non andrebbe oltre il 15%. Il resto lo metterebbe Atlantia, che chiede, però, un aumento della quota di Delta, essenzialmente per due ragioni: ridurre il proprio esborso e accertarsi che l’operazione abbia un significato industriale e non sia puramente finalizzata a un salvataggio di corto respiro.

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Anche ammesso che l’operazione andasse in porto, i sacrifici per la compagnia non sarebbero finiti. Si parla di almeno 2.500 esuberi e di un ridimensionamento della flotta, specie per il lungo raggio. I primi servono, il secondo no. E anche Lufthansa ha un piano simile, con la differenza che si accollerebbe da sola l’intera compagnia, trasformandola in una “low cost”. Altro pretendente sarebbe ancora il colombiano German Efromovich, a capo di Avianca, che nei mesi scorsi aveva presentato già un’offerta da 1 miliardo.

Nessun piano industriale per Alitalia

Siamo sempre punto e d’accapo. Alitalia necessita di un piano “lacrime e sangue” per rilanciarsi, ma lo stato non lo avalla per ragioni essenzialmente elettorali, spaventato dai forti tagli al personale. Per questo, intende rinazionalizzarla, ma pretende che alcuni soggetti privati gli diano una mano a rilanciarla, salvo scoprire che giustamente nessuno si mostri disposto a iniettare capitali in una società controllata dal governo italiano.

E questi farebbe a meno dei privati, ma a costo di aprire davvero il portafogli con investimenti cospicui e attuare quel piano così socialmente doloroso, quanto necessario per porre fine a un’agonia di cui non si contano più gli anni. Ma questo sarebbero capaci, più e meglio, di farlo i privati stessi.

Nulla di tutto ciò accadrà. Il governo Conte, lo stesso che ha sbraitato contro la famiglia Benetton per più di un anno, punta al ricatto per strappare ad Atlantia un ingresso nel capitale, finalizzato al solo reperimento dei fondi minimi necessari per provvedere al salvataggio, senza che dietro vi sia alcun progetto industriale effettivo. Dal canto suo, i fratelli di Ponzano Veneto non accettano di investire senza prima conoscere il destino sulle concessioni autostradali. Il tempo corre e la cassa, complice i mesi “morti” dell’autunno/inverno, si assottiglia.

Alla fine, i contribuenti italiani verseranno ulteriori denari in una compagnia che ogni giorno perde circa mezzo milione di euro alzandosi inutilmente in volo. Senza contare che le stesse Ferrovie, soggetto pubblico, investiranno 300-350 milioni per far contento il governo, mentre Delta magari punta semplicemente a sincerarsi che Alitalia non nuoccia ai suoi interessi e Atlantia a garantirsi un trattamento di favore sul caso Morandi. Insomma, nessuno sembra avere intenzioni serie sull’ex compagnia di bandiera, tranne coloro che dai commissari sono stati esclusi dalle trattative, evidentemente perché avrebbero posto fine a uno status quo fin troppo collaudato per essere smantellato. E l’italiano paga, stavolta anche la pantomima dei 5 Stelle al governo, che fingono la faccia dura con i Benetton, con i quali trattano sottobanco e tirandola per le lunghe per ragioni di pura facciata, rendendo così necessario un nuovo prestito a carico dei contribuenti.

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