Ieri, il premier Mario Draghi ha presentato in Parlamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza da 221,5 miliardi di euro. Un’occasione storica per l’Italia è quanto da mesi andiamo dicendo in lungo e in largo nello Stivale, ossia da quando i governi europei hanno discusso e approvato il Recovery Fund. Denaro, se ben speso, che sarebbe in grado di stimolare il PIL da qui al 2026 di ben 16 punti percentuali e di 24 nel Meridione. Anche considerate le cifre miserrime della crescita economica italiana negli ultimi 20 anni, si tratta di previsioni immense.

Ma occhio ad eccedere nell’ottimismo, perché andando a scavare tra le cifre, scopriamo che i potenziali benefici netti per il sistema Italia rischiano di rivelarsi assai modesti.

Anzitutto, i fondi europei stanziati con il programma Next Generation EU ammontano effettivamente a 191,5 miliardi. I 30 miliardi in più si riferiscono allo scostamento di bilancio votato in Consiglio dei ministri e che verrà perlopiù impiegato per sostenere la ripresa. E di questi 191,5 miliardi di euro, 53 attengono alla copertura di investimenti già in programma. Dunque, i progetti nuovi veri e propri saranno pari a 138,5 miliardi. Su di essi dovremmo impostare il ragionamento riguardo al contributo dell’Europa.

Recovery Fund, benefici netti molto più modesti

Attenzione, perché 68,9 miliardi saranno erogati in forma di sovvenzioni, ma il resto ci sarà offerto come prestiti, cioè andrà restituito. E l’Italia contribuisce pro-quota in base al PIL a finanziare i 390 miliardi stanziati con il Recovery Fund tramite sovvenzioni. Dovremmo sborsare una cifra pari a una quarantina di miliardi, per cui il beneficio netto per il nostro Paese sarebbe non superiore a una trentina di miliardi. Sulla base dei dati relativi ai fondi UE nel settennato 2014-2020, quando abbiamo speso solamente il 38% delle erogazioni, corriamo il serissimo rischio di sotto-utilizzare le sovvenzioni del Recovery Fund, finendo per rimetterci.

Infatti, spendendo meno di quei 40 miliardi di contributo alla UE dovuto, passeremmo da beneficiari a creditori netti. Il discorso neppure si pone per i prestiti, il cui beneficio consiste semplicemente nella capacità di indebitarci a costi molto inferiori di quelli che affronteremmo ricorrendo direttamente ai mercati dei capitali. Dunque, possiamo mettere all’attivo l’azzeramento dello spread sugli oltre 120 miliardi di prestiti UE. E va da sé che senza il Recovery Fund, non avremmo neppure ipotizzato di investire questi denari con soldi propri, proprio per l’impossibilità di rifinanziarci a costi contenuti sui mercati e per il timore di indisporre gli investitori.

I costi si vedranno nei prossimi anni

Ma questi soldi prima o poi dovranno essere restituiti emettendo titoli di stato e, quindi, esponendoci ai tassi d’interesse imposti dal mercato. A quel punto, neppure i prestiti saranno più “gratis”, ma si riveleranno costosi. Se per allora non saremo stati in grado di impiegare i fondi ottenuti in maniera proficua, rischiamo di ritrovarci con ancora più debito pubblico e la stessa crescita economica di sempre. E tornando ai sussidi, non sono gratis neppure per la parte di contribuzione netta che ci spetta. Il Recovery Fund ha posto le basi, infatti, all’introduzione di forme di fiscalità comune. L’obiettivo sarebbe di incassare a livello comunitario 22 miliardi di euro all’anno da nuove imposte, tra cui sul carbone e sulle attività digitali. Denari, che pagheremo anche noi contribuenti italiani.

In definitiva, il Recovery Fund è senz’altro un’occasione per immaginare il rilancio dell’Italia dopo decenni di sotto-investimenti. D’altra parte, non sono soldi che arriveranno da Marte, ma essenzialmente nostri e semmai coperti dalla Commissione europea. Per questo, il costo immediato di questi fondi sarà bassissimo per gli anni in cui ci saranno erogati, ma lieviterà quando dovremo restituirli sia in forma di rimborsi, sia attraverso la maggiore fiscalità.

L’Italia dovrà compiere un salto di qualità per spendere tutto e bene.

Dovremo destinare ogni euro incassato con il Recovery Fund per stimolare la crescita di medio-lungo termine, non ad alimentare le solite consorterie locali vicine alla politica o ad ingrassare l’assistenza fine a sé stessa. Riusciremo nell’intento? Lo vedremo solo a consuntivo. Per il momento possiamo solo sperarlo. Se falliremo, verosimilmente avremo perso definitivamente il treno per restare in corsa nella competizione globale. E i partner europei di noi non si fideranno più e addio a emissioni comuni di debito, addio alla solidarietà intra-comunitaria.

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