A febbraio, la corsa del debito pubblico italiano è accelerata. Lo stock è salito di 36,9 miliardi a 2.643,8, segnando un nuovo record storico. L’incremento è stato dovuto essenzialmente all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro per 27,8 miliardi (a 102,9 miliardi), mentre il fabbisogno dello stato si è fermato a 9,2 miliardi. Detto in parole povere, il Tesoro ha accumulato liquidità, come sempre capita per tutta la prima parte dell’anno.

Ma ciò non conforta. Il quadro resta allarmante. Con l’ultimo scostamento di bilancio da 40 miliardi di euro e che salirebbe fino a 43 miliardi, stando alle indiscrezioni raccolte ieri nella maggioranza, il deficit nel 2021 si attesterebbe tra il 10% e l’11% del PIL.

Non solo il rapporto debito/PIL non scenderebbe, ma lo stesso disavanzo resterebbe nei pressi dei livelli dello scorso anno (10,8%). Cifre altissime, che non si vedevano da inizio anni Novanta.

Sì, perché per trovare una corsa del debito così veloce bisogna risalire al 1991, quando il deficit pubblico si attestò all’11% del PIL. Considerate che nel 2009, anno della potente crisi finanziaria mondiale, il “buco” dei conti pubblici fu la metà di quello registrato lo scorso anno. Nel ’91, dicevamo, il deficit fu dell’11%, ma la sua composizione si rivelava molto differente rispetto al 2020-2021. Allora, il saldo primario dello stato risultava nullo, mentre la spesa per interessi coincideva totalmente con il disavanzo ed era per l’appunto pari all’11% del PIL. Di fatto, essa assorbiva quasi un quarto della spesa pubblica.

Corsa del debito, le differenze con l’inizio anni Novanta

Dall’anno seguente, però, l’Italia ha sempre registrato avanzi primari, ad eccezione del 2009 e del 2020, nonché certamente di quest’anno. L’ultimo bilancio pubblico ci consegna una spesa per interessi pari al 4% del PIL e un disavanzo primario vicino al 7%. In altre parole, l’anno scorso fu la più forte crisi a memoria d’uomo accusata dall’Italia ad avere fatto saltare i conti pubblici, accelerando la corsa del debito.

Gli interessi sono di poco variati in valore assoluto e saliti in percentuale per il semplice collasso nominale del PIL.

Altra grossa differenza riguarda il tasso implicito, cioè il rapporto tra spesa per interessi e debito pubblico: sopra l’11% nel 1991, al 2,5% nel 2020. Al netto dell’inflazione, le conclusioni non cambiano: 4,5% il tasso implicito reale nel 1991, all’1,5% nel 2020. E se guardiamo al tasso medio reale all’emissione dei nuovi titoli, esso risultava intorno al 4,5% 30 anni fa, mentre nel 2020 si attestava al -0,50%. In buona sostanza, stiamo continuando a indebitarci a tassi calanti, ragione per cui la spesa per interessi è destinata a contrarsi in valore assoluto e percentuale, salvo che, come lo scorso anno, variabili macro come PIL nominale e debito pubblico non mutino in maniera repentina e significativa in senso sfavorevole.

Per concludere, siamo tornati a registrare gli stessi livelli di deficit di 30 anni fa. La corsa del debito prosegue e quasi certamente concluderà il 2021 sopra la soglia dei 2.700 miliardi. Ma rispetto ad allora abbiamo dalla nostra una notevole differenza, ovvero che riusciamo a raccogliere capitali sul mercato a costi nettissimamente inferiori. E se a inizio anni Novanta dovevamo rinnovare l’intero debito ogni 3 anni, adesso riusciamo a farlo in più di 7. Questo significa che l’eventuale rialzo dei rendimenti sovrani avrebbe effetti d’impatto meno marcati sui conti pubblici. Ma nulla toglie che la situazione sia serissima e che senza crescita, a pandemia finita saranno dolori.

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