Il Venezuela muore letteralmente di fame, ma non il suo regime, come dimostrerebbe anche il sequestro di questi giorni a Roma da parte della Guardia di Finanza di beni di lusso appartenenti a imprenditori vicini a Nicolas Maduro e che avrebbero sottratto milioni di dollari dal programma di aiuti alimentari a Caracas. E nelle prime settimane di novembre, le esportazioni di petrolio stanno riprendendosi con 11 milioni di barili in 11 giorni, una media più che doppia rispetto allo stesso periodo di ottobre, quando nel complesso le estrazioni si erano attestate a 761.000 barili al giorno.

La scorsa settimana, il quotidiano finanziario americano Bloomberg ha riportato la notizia, secondo la quale il colosso petrolifero russo Rosneft starebbe aiutando il regime del Venezuela a violare le sanzioni USA. Una nave cargo battente bandiera liberiana, chiamata Dragon e sotto contratto con la compagnia di Mosca, avrebbe trasportato meno di un mese fa un carico di 2 milioni di barili di greggio prodotto in Venezuela. L’ultimo segnale GSM risale al 23 ottobre e successivamente pare che il dispositivo sia stato appositamente disattivato per non lasciare tracce sui suoi movimenti. Il tanker sarebbe partito dall’Europa, dov’è stato visto al largo delle acque francesi, per dirigersi verso il paese sudamericano, nel quale sarebbe avvenuto il carico dei barili.

Rosneft e Dragon hanno negato le accuse, sostenendo di rispettare le leggi internazionali e che il trasporto farebbe riferimento ad accordi sottoscritti prima dell’entrata in vigore delle sanzioni. Una spiegazione che non convince e che puzza di arrampicamento sugli specchi. Sappiamo da anni che la Russia di Vladimir Putin sostiene il regime “chavista”, quale che sia il costo in termini di sofferenze umane della popolazione venezuelana. Le ragioni di questo asse sono essenzialmente due: geopolitiche ed economiche. Mosca cerca di impedire che Caracas cada in mani americane, così da tenersi stretto un prezioso alleato nell’America Latina, dove l’influenza della Cina risulta crescente ormai da almeno inizi anni Duemila.

I problemi del Venezuela sono nati prima di Chavez e sempre dal petrolio

Le relazioni tra Mosca e Caracas a colpi di dollari

Dal 2006, poi, ha prestato a Hugo Chavez prima e a Maduro dopo qualcosa come 17 miliardi di dollari, denaro non del tutto restituito, tant’è che due anni fa è stato siglato un accordo di ristrutturazione su 3,15 miliardi di prestiti e per un periodo di 10 anni. Inoltre, Rosneft detiene il controllo del 49,9% di Citgo, la raffineria con sede nel Texas e controllata dalla compagnia petrolifera statale venezuelana PDVSA, a garanzia di 1,5 miliardi di prestiti erogati. Ora, se la ricostruzione di Bloomberg si rivelasse esatta, due sarebbero le possibili motivazioni di questo soccorso via mare della Russia al Venezuela: o Mosca sta tentando di riappropriarsi del denaro prestato tramite consegne di petrolio o sta effettivamente aiutando il regime a violare l’embargo per sopravvivere finanziariamente al collasso.

Anche se l’ipotesi corretta fosse la prima, sarebbe ugualmente una forma di sostegno a un regime sanguinario, in quanto i russi li sgraverebbero di un debito e senza pesare sulle magre riserve valutarie, anziché subire le conseguenze dello sciagurato sostegno a Caracas, già patite da un paio di anni a questa parte da tutti i creditori privati, da ultimi anche quelli del bond PDVSA ottobre 2020, andato in default ufficialmente poche settimane fa.

Il petrolio per Caracas rappresenta l’unico bene sostanzialmente esportato dal Venezuela. Nel 2013, quando Maduro si era appena insediato dopo la morte di Chavez e una vittoria discutibilissima alle elezioni presidenziali, il Venezuela vendeva all’estero beni per circa 144 miliardi di dollari, esitando un surplus commerciale di circa 100 miliardi. Allora, però, le quotazioni si dirigevano verso la tripla cifra e le estrazioni erano prossime ai 3 milioni di barili al giorno.

Nel 2018, invece, il valore delle esportazioni risultava crollato a meno di 35 miliardi e le importazioni compresse a meno di 14 miliardi, 30 in meno di 5 anni prima, al fine di non deprimere le riserve valutarie quasi al secco. Una tragedia umanitaria senza eguali in questo momento nel mondo, dinnanzi alla quale il sostegno al regime, sotto qualsiasi forma, appare quanto meno avvilente.

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