Riesce difficile immaginare oggi che il Venezuela sia stata tra le economie più ricche al mondo fino alla fine degli anni Settanta, la più ricca dell’America Latina. Mentre le dittature di stampo militare dilagavano nell’area, Caracas si mostrava una democrazia giovane e resiliente alle soluzioni autoritarie, proprio in virtù della sua ricchezza, che attirava immigrati da varie parti del mondo, tra cui l’Italia. Il sogno si spense negli anni Ottanta, quando il petrolio crollò di prezzo. Era stata l’unica risorsa su cui girava l’economia venezuelana.

Anzi, i governi del tempo avevano fatto di tutto per accrescere la dipendenza dall’oro nero, con le conseguenze drammatiche che s’intravidero già nel 1989, quando il taglio dei prezzi sussidiati per numerosi beni, tra cui il carburante, ne fecero esplodere i costi, scatenando violente proteste di piazza, le quali provocarono – si stima – fino a un massimo di 3.000 morti.

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Fu non solo la fine del sogno di un’economia ricca e democratica, bensì di qualsiasi tentativo serio di riformare il paese, che pian piano scivolava alla fine degli anni Novanta verso una dittatura “dolce” di stampo socialista con il comandante Hugo Chavez, succeduto alla sua morte nel 2013 da Nicolas Maduro.

I prodromi della crisi venezuelana si erano vissuti già dagli inizi degli anni Settanta, quando l’inflazione era esplosa fino a un massimo di oltre il 50%. Ad alimentarla era stata una delle cause che l’avrebbe fatta esplodere a livelli irreparabili quasi mezzo secolo dopo: il cambio forte. I governi perseguirono la scellerata politica del “bolivar fuerte”, abbracciata senza freni poi dal regime “chavista”, al fine di ridurre i costi dei beni importati, aumentando la sensazione di ricchezza della classe media nazionale. Ciò ebbe due conseguenze disastrose per l’economia: azzerò le esportazioni di beni e servizi diversi dal petrolio, rendendo le imprese non competitive; incentivò le importazioni e disincentivò la produzione interna, aumentando la dipendenza dall’unica risorsa prodotta, vale a dire il petrolio.

Prima del “chavismo” problemi simili

L’eccesso di importazioni provocò l’indebolimento della struttura produttiva domestica, mantenne forte la domanda di dollari, la cui carenza sul mercato ufficiale fece sorgere un ricco mercato nero del cambio, con inevitabile impennata dell’inflazione. E i capitali fuggivano all’estero, vuoi per tutelarsi dai prezzi instabili, vuoi anche per il fatto che ufficialmente il dollaro fosse economico da acquistare, rendendo poco costosi gli impieghi fuori dal paese andino. Se aggiungiamo che i proventi petroliferi venivano scialacquati per finalità tutt’altro che pubbliche e sociali, alimentando la corruzione negli apparati statali, si capisce come vi fossero tutte le premesse per fare attecchire un regime di estrema sinistra e dalla retorica anti-capitalistica.

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Il “chavismo”, però, non solo non cercò di recidere il legame tra economia e petrolio, anzi lo accrebbe, introducendo il tasso fisso di 3:1 (irrealisticamente forte) tra bolivar e dollaro per arrestare la fuga dei capitali, imponendo prezzi amministrati su centinaia di beni e servizi primari, sfruttando all’inverosimile i proventi petroliferi per finalità sociali e prosciugando le casse della compagnia petrolifera statale PDVSA, impossibilitata a investire per anche solo mantenere costanti le estrazioni. I risultati maldestri non sono arrivati a tardare: produzione petrolifera odierna di circa i due terzi più bassi dell’era pre-Chavez; petrolio come unica fonte di esportazione (96% dei ricavi in dollari); riserve valutarie precipitate sotto i 10 miliardi di dollari, nonostante la repressione coattiva delle importazioni; collasso del bolivar sul mercato nero, diverse svalutazioni per adeguare il cambio ufficiale alla realtà e iperinflazione.

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