Italia isolata, Italia sempre più distante dal nucleo dell’Europa, Italia lasciata sola a combattere contro la Commissione europea. Sono i tormentoni di questi anni, rinvigoriti dalla nascita del governo giallo-verde su posizioni ostili all’austerità fiscale. Eppure, non che i presunti “amici” si siano fatti avanti nel 2011, quando il nostro Paese visse una delle fasi più convulse sul piano economico, finanziario e politico dalla Seconda Guerra Mondiale; né quando lo stesso governo Renzi invocava flessibilità sui conti pubblici e regole più morbide sui salvataggi bancari.

Se il debito pubblico italiano preoccupa persino con i tassi a zero

Lo stesso accade con il vicepremier Matteo Salvini, che pur godendo di alleanze a Strasburgo con i governi cosiddetti “sovranisti”, da loro non ha mai ricevuto alcun sostegno concreto. Anzi, a partire dal premier ungherese Viktor Orban, membro dello stesso PPE della cancelliera Angela Merkel, tutti si sono schierati contro quelle che vengono percepite e definite capricci dell’Italia per sfuggire alle proprie responsabilità su debito e deficit. Possiamo davvero credere che sia tutto sempre e solo un complotto ordito dalle potenze straniere contro Roma?

Le ragioni dell'”isolamento” italiano

Quando l’Italia si scaglia contro le regole fiscali europee si attira le ire degli stati del Nord Europa, ideologicamente propensi all’austerità e che nutrono forti pregiudizi verso quella che ritengono essere una politica spendacciona. Ma non sono gli stati scandinavi o della Mitteleuropa il vero problema. A parte la rigidità dell’asse franco-tedesco, esiste una palese assenza di solidarietà verso di noi dal resto dell’Europa del sud. Spagna e Portogallo non si sognano nemmeno di alzare un dito per proferire parola in nostro favore. Ingratitudine, considerando che abbiamo salvato proprio i conti dello stato di Lisbona e quelli delle banche di Madrid?

No, la realtà è più complessa. L’economia oggi è globalizzata, nel senso che non solo le merci e i servizi si muovono liberamente da uno stato all’altro quasi senza più barriere doganali e regolamentari, ma anche i capitali circolano senza più confini e a ritmi anche molto veloci.

Residue barriere esistono ancora per i lavoratori, almeno quelli provenienti dai paesi esterni alle aree di libero scambio o che si regolano tra loro sul tema dell’immigrazione con apposite convenzioni. La libera circolazione dei capitali negli ultimi 40 anni ha stravolto il panorama finanziario mondiale. Essi si dirigono laddove il loro impiego si rivela più efficiente e remunerativo. Presuppongono l’abbattimento di rigidità normative, una tassazione quanto più leggera possibile e piena libertà per il mercato di funzionare secondo le proprie regole.

I tassi sui conti pubblici crollano e ci espongono alla speculazione internazionale

Senza capitali, non si cresce o si cresce poco. Essi risultano determinanti per fare compiere alle economie avanzate quel salto tecnologico che di tanto in tanto le smuove da una direzione altrimenti stagnante. Non bastano i soli capitali per crescere, ma essi ne costituiscono la “conditio sine qua non”. E veniamo al punto: o fai parte del circuito dei capitali internazionali o ne resti escluso con tutte le conseguenze del caso. Se accetti di farne parte per beneficiare dei vantaggi, devi accettarne le condizioni, ossia devi mostrarti responsabile nella gestione dei conti pubblici, della politica monetaria e nell’accettazione delle regole del mercato. Se anche solo a parole inizi a mettere in dubbio l’adesione a questi principi, i capitali defluiscono per timore di finire vittime di una cattiva governance, prendendo il largo per altri lidi.

Fuori dai mercati non si cresce

L’Italia non è l’unico stato europeo a mal tollerare le regole fiscali imposte dalla Germania ai partner dell’unione monetaria, ma è l’unica a metterle formalmente in discussione.

Questo non piace ai mercati, perché temono che siano il frutto di politiche demagogiche, inefficienti, costose e imprudenti. Chi solidarizzasse con Roma finirebbe per essere guardato con altrettanto sospetto dai detentori dei capitali e ogni sua minima mossa o dichiarazione verrebbe scrutata per capire se la direzione sia quella giusta. Insomma, non abbiamo alleati, perché nessuno vuole finire nella “black list” dei mercati. E non si tratta di essere compiacenti con banche, fondi e assicurazioni, quanto di non mettere a repentaglio il modello di crescita che ha garantito all’Occidente benessere diffuso come mai prima nella storia del mondo.

In fondo, nemmeno noi italiani conducemmo battaglie campali nel 2015 quando la Grecia di Alexis Tsipras e del suo buffo ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, sfidarono l’Europa fino a quasi uscire dall’euro. In quell’occasione, recitammo semmai il ruolo dei sostenitori della linea morbida, non certo di quella di uno scontro con Bruxelles in nome della lotta all’austerità fiscale. Non eravamo nelle condizioni di spenderci per gli altri, ma anche in quel caso prevalse la necessità di non mostrarci irrispettosi delle regole del gioco. La Turchia di Erdogan di questi anni è la dimostrazione più lampante di come un’economia in forte crescita possa andare in malora dal momento che esce dal circuito internazionale dei capitali, sfoggiando irriverenza verso le condizioni annesse. E così è stato anche per l’Argentina della presidenta Cristina Fernandez de Kirchner o per il Venezuela “chavista” collassato di Nicolas Maduro oggi. Il capitalismo non sarà il migliore dei mondi possibili, ma per dirla alla Winston Churchill, non si conosce un sistema che funzioni meglio.

Crisi debito pubblico, ecco perché i mercati dubitano dell’Italia e premiano Spagna e Portogallo

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