L’Italia pagherà nel quadriennio 2019-2022 interessi sul debito pubblico per 301 miliardi ed esiterà complessivamente un disavanzo pubblico di 180 miliardi. Sono i dati riportati da uno studio di Unimpresa, che segnalano come, al netto della spesa per interessi, i nostri conti pubblici riporterebbero un avanzo primario (“tesoretto”) di 130 miliardi. E, però, il debito va onorato, è fuori discussione. Il punto è un altro: paghiamo troppo e aldilà delle nostre storiche e croniche inefficienze. Se rapportiamo la spesa per interessi al debito, otteniamo che questo ci costi circa il 3%, meno del 4-5% degli anni precedenti al varo del “quantitative easing” e, soprattutto, del 10% di inizio anni Novanta, ma ancora troppo, se si considera che nello stesso frangente alla Francia costa poco più della metà e alla Spagna circa mezzo punto percentuale in meno.

Inutile il confronto con la Germania, il cui rapporto debito/pil è sceso sotto il 60% e che paga mediamente l’1%.

Il debito pubblico italiano terrorizza la Germania. E alla BCE serve un Draghi dopo Draghi

Se pagassimo una media tra Francia e Spagna, spenderemmo qualcosa come una ventina di miliardi in meno ogni anno. Il pareggio di bilancio sarebbe maggiormente alla portata e, soprattutto, nel quadriennio in corso registreremmo un disavanzo di quasi 100 miliardi più basso delle cifre fornite da Unimpresa. In pratica, il rapporto debito/pil scenderebbe più velocemente, attirando la fiducia dei mercati, i quali ignorano palesemente il fatto che da quasi 30 anni l’Italia chiuda i bilanci con corposi avanzi primari, cosa non riuscita nemmeno alla Germania, se non di recente.

Tecnicamente, per accelerare l’abbattimento del rapporto debito/pil esisterebbero due soluzioni: aumentare l’entità dell’avanzo primario e/o inflazionare l’economia. Quest’ultima opzione ci è preclusa dall’assenza di una banca centrale propria e la BCE non punta certo a una simile soluzione; né sarebbe desiderabile che accadesse, perché le facili soluzioni sono sempre le più devastanti.

E la dura lezione degli anni Settanta-Ottanta dovrebbe insegnarci qualcosa. Quanto all’avanzo primario, qualcosa si potrebbe ricavare dal taglio della spesa pubblica più improduttiva, mentre dovremmo escludere che si possa ulteriormente alzare la pressione fiscale, già altissima. Il punto è che l’impatto per l’economia, in un caso o nell’altro, non sarebbe positivo: tagliare la spesa e alzare le tasse deprimono a breve il pil, rischiando di fare salire e non scendere il rapporto e di indisporre ulteriormente i mercati. E bisogna ammettere che l’Italia non versi nelle condizioni ideali per smentire tale profezia, stretta tra una domanda interna anemica e una tassazione tra le più alte al mondo.

La ristrutturazione del debito pubblico tramite la BCE

E allora, cosa fare? Senza girarci troppo intorno, probabile che l’Italia sia costretta prima o poi a una ristrutturazione del debito pubblico, ma non nella modalità altamente tossica di allungare coattivamente le scadenze ai titoli emessi o di tagliarne le cedole e/o il valore nominale. Insomma, non la ripetizione dell’esperimento in Grecia del 2012, bensì passando attraverso la BCE. Come? Una soluzione sarebbe la seguente: Francoforte acquisterebbe tutto il debito eccedente il 60% del pil degli stati membri dell’Eurozona e lo trasformerebbe in uno o più bond a lunghissima scadenza (30, 40, 50 anni?), su cui gli stati pagherebbero cedole relativamente basse, chiaramente inferiori ai tassi pretesi dal mercato. E, cosa assai importante per strappare l’assenso dei paesi del nord, nessuno rimarrebbe obbligato in solido verso i partner. In pratica, ognuno pagherebbe i propri debiti, senza scaricarli agli altri.

Debito pubblico: gli interessi ci strangolano, ecco come la BCE dovrà abbassarli

Immaginate una siffatta soluzione, con l’Italia che si ritroverebbe ad essere sgravata da scadenze per quasi 1.300 miliardi di euro.

A tanto ammonterebbe la quota del nostro debito che la BCE rileverebbe, stanti gli attuali dati macro, trasformandola in un bond a 50 anni, supponiamo con cedola all’1%. Pagheremmo su di essa ogni anno 13 miliardi di interessi a Francoforte, qualcosa come più di 25 in meno rispetto ad oggi. Risparmi, che abbatterebbero il deficit, frenando la corsa del debito e accelerando il calo del rapporto debito/pil. Oltre tutto, con esigenze di rifinanziamento di anno in anno assai minori, l’Italia spunterebbe migliori condizioni sui mercati anche per la quota rimanente di debito al 60% del pil, anche perché gli investitori fiuterebbero la sostanziale eliminazione del rischio sovrano per mezzo della BCE.

Se, poi, come il più ardito piano Wyplosz propone, il bond fosse “perpetuo” e a interessi zero, vale a dire senza scadenza e oneri per il debitore, i benefici aumenterebbero ulteriormente per i conti pubblici nazionali, anche se tale ipotesi risulterebbe ancora meno digeribile per paesi come la Germania, la cui solidità fiscale finirebbe per essere sminuita dall’intervento di Francoforte. Potrete giustamente pensare che si tratti di elucubrazioni mentali, ma se ci pensate bene, il “quantitative easing” è stato solo il primo passo per imbarcare le banche centrali principali del pianeta in un’avventura della quale è stato scritto solo il primo capitolo. In cambio, agli stati ristrutturati potrebbe venire chiesto di vincolarsi credibilmente al perseguimento di politiche di bilancio responsabili, puntando all’equilibrio dei conti, peraltro più facile da centrare per via dell’assai più bassa spesa per interessi. E con 2.100 miliardi di titoli di stato già in cassa, di cui 370 in BTp, la BCE avrebbe già una buona base da cui partire, magari inizialmente chiamando la ristrutturazione “Operazione Twist”, allungando la durata dei titoli in scadenza.

[email protected]