E’ stata una campagna elettorale surreale quella appena finita. Tutti gli schieramenti politici in campo hanno promesso politiche di spesa o riforme fiscali senza alcuna copertura. Succede sempre che i politici dicano solo una parte della verità quando chiedono il voto agli elettori, mostrando delle loro proposte semplicemente la parte apparentemente più positiva per tutti. Stavolta, però, il surrealismo sembrava effettivo, nel senso che tutti hanno corso sapendo che non avrebbero potuto realizzare un accidenti delle loro promesse, fiutando che non avrebbero conquistato alcuna maggioranza autonoma in Parlamento.

E, però, aspettative enormi, come quelle suscitate dal Movimento 5 Stelle e, in particolare, al sud hanno decretato non solo l’assenza di maggioranze, ma anche la vittoria di una forza anti-sistema, che della stabilità dei conti pubblici e della sostenibilità del debito non si è mai palesemente curata. Com’è stato possibile tutto ciò in un’economia con un rapporto debito/pil sopra il 130% e pari a quasi 2.260 miliardi di euro?

Basterebbe guardare alla reazione dei mercati al tracollo della Seconda Repubblica, naufragata sotto i colpi di un’avanzata spettacolare a destra della Lega di Matteo Salvini e del boom scioccante del Movimento 5 Stelle al sud. Nessuna impennata dello spread, nessuna lievitazione dei rendimenti sovrani, nessun calo della borsa. Insomma, gli investitori sembrano farsi scivolare addosso lo scenario più temuto fino a qualche giorno fa: l’arrivo al governo di una o più forze euro-scettiche e “populiste”.

In realtà, a spiegare l’apparente contraddizione è la BCE di Mario Draghi. Con i suoi 30 miliardi di titoli acquistati ogni mese nell’Eurozona crea una domanda automatica, stabile e sostenuta di bond, che nei fatti sventa sul nascere qualsivoglia tensione finanziaria. Quando lunedì i prezzi dei BTp sono lievemente scesi e i rendimenti di poco saliti, per il mercato ciò ha rappresentato un segnale di acquisto, non di allarme.

E, infatti, ieri lo spread BTp-Bund a 10 anni tornava persino sotto i livelli di venerdì scorso, in area 132 punti.

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Draghi ha silenziato i mercati

Ricordate quando i tedeschi si opposero strenuamente dentro la BCE al “quantitative easing”, sostenendo che avrebbe creato un “azzardo morale”? Persero la battaglia, essendo la Bundesbank minoranza nel board, ma ebbero ragione. Cosa intendevano dire a Berlino? Se la BCE abbassa artificiosamente i rendimenti dei titoli di stato, acquistandoli, vengono meno i segnali lanciati dai mercati ai governi sul grado di apprezzamento e di timore sulle loro politiche. In sostanza, sparisce quella pressione, che alla fine del 2011 costrinse l’allora governo Berlusconi a prendere atto di non godere della fiducia degli investitori, lasciando il posto a un esecutivo a guida Mario Monti.

Cosa accadde in quei pochi mesi di governo Monti? L’Italia, temendo il crac finanziario per via di uno spread esploso fino ai famosi 576 punti base, varò alcune riforme, tra cui quella socialmente più sensibile sulle pensioni, la cosiddetta legge Fornero. E’ vero, la fretta fu una pessima consigliera e quelle misure vennero scritte spesso male e senza il dovuto raziocinio, tant’è che si parla da allora su come modificarle. Ma a Roma ci si diede una mossa, perché si capì la gravità di un’economia iper-indebitata, priva di crescita e atrofizzata da una burocrazia senza eguali in Occidente.

Legge Fornero davvero a rischio?

La pressione dei mercati iniziò ad allentarsi il 26 luglio del 2012, quando il governatore Mario Draghi pronunciò da Londra quella famosa frase “whatever it takes”, con cui promise che avrebbe salvato l’euro a ogni costo. E risultò credibile. Gli spread fortunatamente declinarono e le elezioni italiane del febbraio 2013 già si tennero in un clima meno teso. L’anno successivo, lo stesso Draghi compiva un passo in avanti, annunciando politiche di accomodamento monetario non ortodosse, varando il QE a inizio 2015.

Da allora, i BTp hanno iniziato a rendere mai così poco nella loro storia. Se all’apice della crisi un decennale viaggia intorno al 7,4, nel marzo di 3 anni fa si schiantava all’1% e a tale livello rimaneva nella tarda estate del 2016. Solo la ripresa dell’inflazione, pur a livelli bassi, li ha spinti all’attuale 2%.

Debito non più percepito come problema

Grazie a Draghi, abbiamo risparmiato decine di miliardi di euro in interessi sul debito. Lo scorso anno, abbiamo speso poco più di 60 miliardi per questa voce, quando nel 2012 avevamo superato gli 82 miliardi. I benefici ci sono stati, ma quell’azzardo morale di cui parlavano e parlano tutto’ora i tedeschi si è concretizzato. Come? Il governo Renzi, maggiore beneficiario politico del QE, ne ha approfittato non per risanare i conti pubblici e chiudere una volta per tutte la partita del deficit, bensì per ampliare il consenso con politiche dei bonus, che non hanno sostenuto la crescita dell’economia, ultima in Europa nel 2017, ma che sono costati parecchi soldi. L’appuntamento con le scelte è stato rinviato di anno in anno e a Bruxelles è stata chiesta flessibilità fiscale, un’arma da brandire verso un elettorato frustrato da una crisi mai superata e da un declino economico evidente di anno in anno.

Se il governo si mostra irresponsabile, volete per caso che le opposizioni facciano di meglio? E’ stata tutta una gara a chi promettesse di più, tra misure di spesa pubblica in deficit a richieste di taglio delle tasse senza coperture. Nessuno ha più avvertito l’esigenza di mostrarsi credibili e responsabili e ciò ha portato l’elettorato sia a un senso di rigetto verso tutti gli schieramenti politici tradizionali, sia a convincersi che effettivamente certe misure fossero sostenibili, noncurante di un debito pubblico che senza il cortisone della BCE sarebbe già esploso da un pezzo e oggetto di una qualche forma di ristrutturazione da anni.

Debito pubblico, perché dopo Draghi rischia di esplodere

Verso una deriva argentina?

L’intenzione di Draghi, intendiamoci, era esattamente opposta. Egli puntava e continua a puntare, anzitutto, formalmente a centrare il target d’inflazione con iniezioni di liquidità sui mercati, al contempo facendo guadagnare tempo ai governi per fare le riforme necessarie alla crescita e al risanamento dei conti. In pratica, Francoforte pensava e sperava che la minore pressione dei mercati avrebbe agevolato i governi, consentendo loro di avere più tempo a disposizione per fare riforme anche impopolari, ma con la dovuta sapienza. E’ accaduto il contrario, ovvero che, venuta meno la paura per lo spread, l’Italia è tornata ad essere quella di sempre: un Paese spendaccione e, soprattutto, senza alcuna visione sul suo futuro, con campagne elettorali irresponsabili e il tema del debito uscito fuori dai radar della politica.

Flessibilità infinita per Renzi deriva da due grandi errori di Draghi

A beneficiare più di tutti di questa pace sui mercati è stato ad oggi il Movimento 5 Stelle, che ha potuto promettere reddito di cittadinanza a tutti gli italiani privi di lavoro, invocare flessibilità delle regole fiscali a Bruxelles (lo stesso dicasi per la Lega) e oscillare tra posizioni anti-euro ed euro-tolleranti. Nessun tipo di lassismo fiscale potremmo permetterci, quale che sia il governo che si formerà nelle prossime settimane. E non si tratta di battere i pugni o di alzare la voce in Europa, perché se fosse un problema di decibel, lo sconfitto Matteo Renzi avrebbe portato a casa paccate di soldi. Fino a quando non capiremo che i conti pubblici vadano risanati per noi stessi e il nostro futuro e non perché “ce lo chiede l’Europa”, sbanderemo sempre tra una qualche demagogia all’altra, di governo e di opposizione. Ha forse ragione il sociologo Luca Ricolfi, che commentando ieri le vicende politiche attuali ha espresso il triste convincimento che l’Italia stia scivolando senza sosta verso una sorta di “argentinizzazione”.

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