Alla fine di quest’anno, mediamente ogni residente in Italia si ritroverà sul groppone una mole di 38.000 euro di debito pubblico, circa 1,3 volte il livello del suo reddito. E lo scorso anno, ciascuno di noi ha sostenuto una spesa per pagare gli interessi di 1.086 euro, pari a 2,98 euro al giorno, il corrispondente di caffè e cornetto al bar. In pratica, abbiamo pagato la colazione allo stato tutti i giorni, compresi sabato e domenica. Con il rialzo dei rendimenti dei titoli di stato, il rischio che corriamo è di dovere spendere ancora di più per mantenere il debito pubblico, come se il nostro “amico” stato non si saziasse più solo del caffè e del cornetto, ma iniziasse a chiederci nei fine settimana anche gli extra.

E più salgono gli interessi, più cresce la montagna del debito, a parità di avanzo primario. L’Italia chiude ogni anno i bilanci in attivo, al netto degli interessi, ovvero spende già da decenni meno di quanto incassa per i servizi pubblici.

Debito pubblico, come superare una volta per tutte l’assillo dello spread con un intervento radicale

Continuare sulla strada dell’aumento dell’avanzo primario appare politicamente insostenibile, perché per quanto gli interessi siano una voce di spesa necessariamente da pagare, il cittadino nota come il gettito fiscale non sia corrisposto da servizi quantitativamente e qualitativamente adeguati, per cui chiede da ormai troppo tempo sia di migliorare questi ultimi, sia di tagliare le tasse. E le mancate risposte a tali istanze sono alla base dell’instabilità politica, culminata il 4 marzo con l’implosione dei partiti-perno della Seconda Repubblica.

Cosa fare? Bisogna convincere i mercati finanziari a darci la loro fiducia. Poiché abbattere il debito pubblico sic et simpliciter non pare possibile, al netto di ogni considerazione sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare dello stato, serve una terapia choc.

A tale proposito, premettiamo un dato fondamentale: un debito sovrano si distingue da un debito privato (mutuo o prestito) per la caratteristica essenziale di non avere alcuna scadenza nel suo complesso. Il primo, a differenza del secondo, può sempre essere rifinanziato, per cui potremmo considerarlo perpetuo. Tuttavia, poiché i singoli titoli di stato necessitano di essere rinnovati alla scadenza, una cosa è che abbiano una durata breve, un’altra che ne abbiano una lunga.

Allungare la durata del debito

Il debito pubblico italiano ha al momento una vita media residua di 7 anni, mese più o mese meno. Questo significa che ogni anno mediamente scade un settimo della mole di 2.000 miliardi di BTp, essendo i restanti 300 miliardi contratti in altre forme, essenzialmente prestiti delle banche agli enti locali e della Banca d’Italia al Tesoro. Ora, per semplicità di ragionamento, immaginiamo due scenari: il primo, con tutti i 2.000 miliardi di debito espressi in titoli a scadere tra 7 anni; il secondo, con i 2.000 miliardi tutti in scadenza tra 30 anni. Quale pensate sarebbe l’ipotesi migliore per lo stato? Evidentemente, la seconda. Per due ragioni: anzitutto, perché da qui a 30 anni il Tesoro non dovrebbe preoccuparsi di come rinnovare sui mercati il debito, tranne che eventualmente per le nuove emissioni che si rendessero necessarie per finanziare i deficit di bilancio, ma si tratterebbe di cifre marginali (non più del 3% del pil, stando al Patto di stabilità). Dunque, anche se i tassi salissero, non subiremmo alcun contraccolpo, visto che il nostro debito andrebbe rifinanziato solo tra diversi decenni. Semmai, i movimenti dei tassi colpirebbero solo il mercato secondario, cioè il valore dei bond in mano agli investitori privati che volessero rivenderli prima della scadenza. Non sarebbe un problema del Tesoro.

La verità scomoda per l’Europa sul debito pubblico italiano, esploso per salvare l’Occidente

E ci sarebbe un altro dato importante, forse primario, a rendere tale indebitamento molto più sostenibile: una cosa sarebbe il valore di  2.300 miliardi tra 7 anni, un’altra tra 30 anni.

E’ fin troppo chiaro a tutti che, tra inflazione e crescita del pil, 2.300 miliardi varrebbero e peserebbero molto meno nel 2048 rispetto al 2025. Supponiamo che per i prossimi 3 decenni l’Italia cresca dell’1% medio all’anno e che registri un’inflazione dell’1,5%. Il nostro pil salirebbe a quasi 3.700 miliardi di euro. Per allora, i 2.300 miliardi varranno il 62,5% del pil, sostanzialmente l’obiettivo che l’Eurozona si è dato nel 2012 con il Fiscal Compact e già contenuto nei Trattati istitutivi dell’euro. E allora, i mercati percepirebbero certamente più sicuro un debito che scade mediamente tra molti anni, anziché uno che necessita di essere rifinanziato di anno in anno.

Il peso degli interessi

C’è un rovescio innegabile della medaglia: gli interessi. Pagare gli investitori per i bond longevi sarebbe più costoso che farlo per titoli più corti. Un trentennale viaggia, ad esempio, in questa fase intorno al 4% lordo, meno del 3% pagato da un bond a 7 anni. Dunque, emettendo solo titoli molto duraturi, dovremmo sborsare di più ogni anno per gli interessi, con il rischio di aumentare le dimensioni della montagna del debito per il circolo vizioso che si innescherebbe tra rendimenti più elevati e deficit più alti, sempre a parità di saldi primari. Per questo, i governi nel mondo tendono ad allungare la durata media dei rispettivi debiti, approfittando delle fasi ribassiste dei tassi, come il Regno Unito, che negli ultimi anni l’ha portata a oltre 14 anni con l’azzeramento dei tassi seguente alla crisi finanziaria. L’Italia, al contrario, ha optato perlopiù per spendere i risparmi conseguiti con il crollo dei rendimenti, seguito al varo del “quantitative easing”, per sostenere la ripresa economica, la quale è arrivata tardi e male. Tuttavia, due riflessioni sul punto: il premio richiesto dal mercato per acquistare titoli molto duraturi tende ad essere molto basso rispetto ai titoli di minore durata.

La curva delle scadenze si appiattisce sostanzialmente dopo i 10 anni, per cui si sborsa qualche spicciolo in più, a fronte di un forte consolidamento del debito. Secondariamente, allungare di molti anni la vita residua media del debito servirebbe alla percezione degli investitori sulla sua sostenibilità, con la conseguenza non remota che l’intera curva dei rendimenti si sgonfierebbe nel tempo, essendo il rischio valutato più basso.

Debito pubblico, l’occasione persa dell’Italia

Vi chiederete perché mai nessun governo proceda su questa strada. La risposta è politica: nessuno vuole iniziare a pagare di più in interessi, tagliando la spesa e/o alzando le tasse, per fare un favore ai governi che verranno negli anni e nei decenni successivi. La visione dei politici è tipicamente corta, ovunque nel mondo, a maggior ragione in una nazione come la nostra, dove dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi si sono succeduti 65 governi, la cui vita media è di poco più di un anno. Servirebbe consolidare, anzitutto, proprio la durata dei governi italiani per sperare che essi facciano politiche lungimiranti. Nessuno semina, se a raccogliere i frutti saranno gli altri. E’ questa la vera emergenza nazionale italiana, non solo e nemmeno tanto un debito in sé mostruoso, che risulterebbe maggiormente gestibile con i dovuti accorgimenti tecnici. Lo spread è figlio della miopia dei palazzi romani.

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