Scordatevi i Cir, i Conti individuali di risparmio, che il governo Conte intende lanciare nel 2019 per combattere lo spread. Saranno come curare un male con l’aspirina, almeno nel breve termine. Il problema del debito pubblico italiano lo si risolve solo consolidandolo, ovvero allungandone le scadenze di molti anni. Oggi, la vita media residua della montagna di 1.980 miliardi di titoli di stato circolanti sui 2.300 miliardi di stock complessivo è di 6,9 anni. Buona, ma serve molto di più per sganciarsi dall’eccessiva dipendenza dagli umori degli investitori, che da anni ormai varia da grigio a nero.

I rendimenti decennali viaggiano da parecchie sedute nell’ordine del 3,5-3,6%, 7 volte i livelli tedeschi, il doppio di quelli spagnoli. In questo dato terrificante ve n’è un altro meno tetro: i rendimenti a 20, 30 e 50 anni sono solo di poco superiori. I BTp con scadenze 2038, 2048 e 2067 offrono al mercato poco più del 4% lordo, ossia il 3,6% netto.

Ecco come combattere la crisi dello spread e risparmiare preziosi miliardi degli italiani sul debito 

Non si tratta di un paradosso, perché al di sopra di una certa scadenza, la curva dei rendimenti tende ad appiattirsi, come se per un investitore puntare i propri capitali su un titolo a 30 anni piuttosto che su uno a 50 anni fosse sostanzialmente lo stesso. In effetti, quel che accade da qui a qualche decennio è imponderabile, per cui l’extra-premio richiesto per i bond molto longevi tende ad essere quasi nullo rispetto a quello preteso per bond di durata inferiore anche di 10 o 20 anni. Questo ci consentirebbe di approfittarne. Se il Tesoro iniziasse ad emettere debito solo ed esclusivamente per scadenze superiori ai 20 anni, concentrandosi su trentennali e oltre, man mano che arriveranno a maturità i titoli di stato emessi sinora, la durata media dello stock si allungherebbe. Il percorso di consolidamento sarebbe crescente con gli anni e avrebbe effetti di stabilizzazione assai benefici per la nostra economia, perché nessuno attaccherebbe più sui mercati un paese con un debito con durata media, per ipotesi, di 30 anni.

Ad ogni, i titoli con durata pari o superiore ai 20 anni ammontano a poco più di 132 miliardi di euro, circa il 6,5% del totale circolante, quando nel prossimo triennio, al netto dei BoT ancora da emettere, scadranno oltre 550 miliardi di euro, il 28% del totale.

Quale sarebbe lo scotto da pagare? Nel 2017, abbiamo speso in interessi sul debito 65,6 miliardi, il 3,8% del pil. Ancora oggi, nonostante la furia dello spread abbia raddoppiato i rendimenti tra aprile e settembre, quelli medi vigenti sul mercato si attestano nell’ordine del 2,3%. Dunque, sostituiremmo debito mediamente meno costoso con debito più costoso. Questo farebbe salire il peso degli interessi sul bilancio pubblico. Se per ipotesi i rendimenti dei titoli dai 20 anni in su reggessero sui livelli attuali, man mano che ci rifinanziassimo puntando solo sui bond “Matusalemme”, l’extra-costo che dovremmo mettere in conto sarebbe a regime di una quindicina di miliardi all’anno. Il 4% dei 1.980 miliardi attuali di titoli del debito farebbe, infatti, qualcosa come 80 miliardi. Tuttavia, non si tratterebbe di una spesa proibitiva e per svariate ragioni. In primis, perché sarebbe il maggiore costo che sosterremmo solo tra 6-7 anni, quando l’intero stock sarà stato rinnovato. Confidando in una crescita nominale del pil del 2,5% all’anno, il peso degli interessi sarebbe del 3,8% del pil, lo stesso di quello attuale.

Perché allungare le scadenze sul debito

Secondariamente, i tassi stanno già lievitando e inevitabilmente andremmo a sbattere lo stesso contro un aumento del costo per servire il debito. Tanto vale approfittare dell’ultima fase ancora a buon mercato per consolidare il debito e stabilizzarlo contro i rischi derivanti dal rialzo del costo del denaro. Immaginatevi cosa significherebbe se in un dato anno, anziché dover fronteggiare scadenze per 400 miliardi, come mediamente negli ultimi anni, ci trovassimo a rifinanziare una mole di debito assai inferiore.

Ad esempio, se smettessimo di emettere titoli a brevi e medio-lunghe scadenze, già nel 2026 dovremmo rinnovare appena 83 miliardi e nel 2030 solo 30 miliardi, al netto delle emissioni eventualmente necessarie per finanziare i deficit di bilancio per quegli esercizi. Sempre confidando in una crescita media nominale del pil del 2,5% all’anno, si tratterebbe rispettivamente di valori pari al 4% e all’1,3% del pil, cifre praticamente marginali, alla portata di qualsiasi economia, quando ad oggi siamo stati costretti a provvedere a rifinanziamenti superiori al 20% del pil.

Certo, nel frattempo dovremmo fare i conti con una spesa per interessi maggiori, specie se i rendimenti a lungo termine lievitassero proprio in considerazione dell’aumentata domanda sulla parte longeva della curva. Tuttavia, i mercati percepirebbero il passo come compiuto nella giusta direzione e forse premierebbero gli sforzi, riducendo il grado di sfiducia verso i nostri bond. Si consideri che un Bund a 30 anni rende ancora l’1%, per cui esisterebbero margini per un calo dei rendimenti italiani pure sul tratto a lunghissima scadenza. Inoltre, la stessa UE si convincerebbe che i maggiori oneri a carico del bilancio statale facciano parte di un preciso piano per abbattere i rischi sul debito italiano, riducendo quelli sistemici nel resto dell’area. E così, ne terrebbe conto mostrandosi più flessibile sul deficit, ad esempio non richiedendoci un pari aumento dell’avanzo primario – in sé già alto – a copertura di tutto l’extra-costo sostenuto per gli interessi. In cambio, Roma s’impegnerebbe ad abbattere il rapporto debito/pil con misure credibili di medio-lungo termine e non solo puntando a tagli alla spesa o aumenti di imposte nell’immediato.

Dunque, serve proprio allungare di 4-5 volte la durata del debito pubblico e magari per convincere gli investitori istituzionali a puntare sui BTp, bisognerà offrire cedole sostanziose e in linea con il rendimento, in modo da ridurre la volatilità attesa delle quotazioni e rassicurare maggiormente sulla possibilità di rivendere i bond sul mercato secondario prima della scadenza.

Messe così le cose, anche quando qualche investitore scontasse l’uscita dall’euro dell’Italia, approfitterebbe dell’offerta per acquistare titoli che verrebbero rimborsati solo tra 30, 40 e 50 anni, quando il nostro Paese verosimilmente sarebbe in grado di rimborsarli integralmente anche se nel frattempo fossimo tornati alla lira. I problemi si avrebbero, infatti, perlopiù nel medio termine, per cui bisogna uscire fuori dall’arco temporale percepito più a rischio per spingere il mercato a prestarci denaro per bond in scadenza in anni lontani, allettandolo con cedole da sogno in una fase di tassi a zero come questa. Insomma, bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo e solo pensando in grande e andando oltre la contingenza potremmo davvero risolvere una volta per tutte la crisi dello spread e reagire alla sfiducia dilagante della finanza verso il nostro indebitamento sovrano. Forse non è un caso che la stessa Argentina, pur reduce da due default in appena 15 anni, sia stata in grado solo un anno fa a collocare sul mercato un bond secolare. Perché da qui a un’altra era, persino uno stato fallito potrebbe riprendersi.

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