Giornata politicamente rilevante per il palcoscenico mondiale quella di oggi. Il premier britannico Theresa May atterra a Washington per incontrare il presidente USA, Donald Trump. E’ la prima visita di un capo di stato straniero per la nuova amministrazione americana, nonché il primo incontro tra i due. Il vertice bilaterale assume un significato più rilevante di quanto non sarebbe, considerando che tra un paio di settimane, il Regno Unito dovrebbe votare in Parlamento la legge per autorizzare il governo di Londra ad avviare il negoziato con la UE sulla Brexit.

A differenza del predecessore, Trump ha promesso alla May di voler giungere “in tempi brevi” a un accordo commerciale USA-UK, segnalando l’ambizione del presidente americano di creare un asse anti-UE sullo scacchiere internazionale. (Leggi anche: Brexit, pronta legge per uscire dalla UE)

I rapporti tra la nuova amministrazione e il governo britannico dovrebbero partire all’insegna della concordia, anche se diversi esponenti del Partito Conservatore nutrono dubbi sul presidente USA. Il ministro degli Esteri, Boris Johnson, strenuo sostenitore della Brexit, fu lo scorso anno protagonista di un battibecco a distanza con l’allora candidato alle primarie repubblicane, il quale aveva affermato che “in certi quartieri di Londra non è sicuro andare”. Da ancora sindaco della capitale britannica, Johnson rispose per le rime.

Torna un asse alla Reagan-Thatcher?

Insomma, nulla di scontato, ma è nell’interesse dei due leader presentarsi oggi all’opinione pubblica mondiale con una comune dichiarazione d’intenti, se non con qualcosa di concreto in mano. Formalmente, Londra è stata ammonita da Bruxelles sul fatto che non potrà avviare alcun negoziato formale con altre economie per giungere ad accordi di libero scambio, se non prima notificherà la volontà di lasciare la UE. (Leggi anche: Brexit, Trump opportunità o rischio per Londra?)

E’ nell’interesse della May uscire stasera dalla Casa Bianca con una sintonia massima con la nuova amministrazione, in modo da presentarsi alle trattative con Bruxelles con una certa forza negoziale.

 D’altra parte, anche gli USA dovrebbero segnalare il rilancio della loro leadership nel mondo e il Regno Unito è sempre stato un alleato storico prezioso per ridisegnare gli equilibri mondiali. Come negli anni Ottanta, quando presidente USA era Ronald Reagan e a Downing Street c’era Margaret Thatcher. Tra i due vi fu sintonia perfetta sul piano umano e ideologico. Insieme, diedero vita a un nuovo ordine mondiale, caratterizzato dall’apertura dei commerci e dalla globalizzazione finanziaria. E sempre insieme, picconarono a ritmo battente il comunismo dell’allora Urss, provocandone il crollo.

 

 

Tensioni USA-Messico su muro e NAFTA

Se la coppia Reagan-Thatcher si mostrò decisiva per imporre la supremazia del capitalismo e delle liberal-democrazie nel pianeta, l’asse Trump-May, se mai vi sarà, servirà a scardinare e riscrivere le alleanze globali, a ridare impulso al capitalismo anglo-americano, storicamente così lontano dai trattati volumetrici e da ingombranti regolamentazioni, come si hanno nel mercato comune sotto la UE.

E per una visita in programma, un’altra è stata da poco cancellata. Il presidente messicano Enrique Pena Nieto avrebbe dovuto recarsi a Washington mercoledì prossimo, in compagnia dei suoi ministri al Commercio e agli Esteri, ma ieri il presidente USA gli ha fatto sapere via Twitter che sarebbe meglio che non si presenti fino a quando non mostrerà rispetto al suo paese. Il pomo della discordia riguarda l’ordine già impartito da Trump di costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, al fine di impedire l’arrivo degli immigrati messicani negli USA e il cui costo, stimato in una ventina di miliardi di dollari, a suo dire, dovrebbe essere addossato al governo messicano. (Leggi anche: Peso messicano giù, tweets di Trump costati 4 miliardi)

Trump minaccia dazi su prodotti messicani

Pena aveva risposto picche, sostenendo che il suo paese richiede rispetto e Trump aveva controreplicato con la minaccia di imporre un dazio del 20% sui prodotti importati dal Messico.

Alla base della disputa c’è, anzitutto, il NAFTA, l’accordo di libero scambio tra USA, Messico e Canada, siglato nel 1994 e che Trump ha definito “unilaterale”, in quanto dal 1995 ad oggi, l’economia americana ha sempre registrato un deficit commerciale verso il partner del Sud, stimato a 60 miliardi nel 2016. Il settore automotive è quello maggiormente investito dal disavanzo per complessivi circa 70 miliardi netti, mentre gli USA recuperano parzialmente solo con esportazioni nette positive nel campo petrolifero e informatico. (Leggi anche: Investire in Messico ai tempi di Trump?)

Da qui, l’attenzione particolare dimostrata dalla Casa Bianca nei giorni scorsi verso il comparto automobilistico, minacciato a colpi di tweets di subire l’imposizione di dazi, qualora decidessero di delocalizzare ulteriormente quote di produzione in Messico.

 

 

Interscambio commerciale USA-Messico per 530 miliardi all’anno

L’ipotesi dei dazi al 20% contro i prodotti importati dal Messico è chiaramente una carta estrema, che Trump gioca per alzare il prezzo al tavolo delle trattative sul NAFTA, consapevole che non sarebbe un passo positivo nemmeno nell’interesse dell’economia americana, se compiuto. Se da un lato gli USA registrano un saldo commerciale costantemente negativo con il Messico, dall’altro va valutato anche il boom delle esportazioni verso quest’ultimo dai 68 miliardi del ’94 ai 235 miliardi dell’anno scorso. Le due economie si sono integrate fortemente e colpirne gli interscambi non giova a nessuno dei due. (Leggi anche: Dottrina Trump è protezionismo o nuova globalizzazione?)