Il volto feroce non sempre paga. Ne ha avuto conferma il premier indiano Narendra Modi, che esattamente 10 mesi fa annunciava il ritiro delle banconote da 500 e 1.000 rupie, corrispondenti al cambio attuale a 7,8 e 14,9 dollari, avviando la cosiddetta “demonetizzazione” dell’economia. Si trattava, infatti, dei due pezzi circolanti di maggiore valore nel paese e corrispondenti all’86% del cash totale disponibile in un’economia, dove le transazioni in contante rappresentano il 98% di quelle complessive. Stando ai dati della Reserve Bank of India e riferiti al 30 giugno scorso, il 99% delle banconote ritirate risulterebbe depositato in banca per un controvalore di 15.280 miliardi di rupie (238,75 miliardi di dollari).

Insomma, appena l’1% della moneta oggetto della misura draconiana messa in piedi da Nuova Delhi non sarebbe tornata indietro, quando l’obiettivo dichiarato era di almeno un 20%. (Leggi anche: Lotta al contante, pericoloso imitare la nuova misura in India)

Nessun dubbio che si sia trattato di un fallimento vero e proprio e molto imbarazzante per il pur popolare premier conservatore. Il suo intento era di contrastare l’economia sommersa, costringendo i detentori delle banconote di maggiore valore – considerati i più papabili evasori fiscali e/o criminali – a portarle in banca per scambiarle con quelle di nuova emissione. Al di sopra di un certo importo, tuttavia, sarebbero scattate segnalazioni da parte della banca al Fisco, che avrebbe indagato su come il titolare abbia accumulato una simile cifra, incrociando i dati con quelli delle sue dichiarazioni dei redditi.

Lotta al contante flop in India

Insomma, il sistema sembra essere stato congegnato bene, ma alla prova dei fatti si è rivelato solo una gran perdita di tempo per decine di milioni di indiani, le quali hanno dovuto mettersi in fila anche per diverse ore, al fine di scambiare in banca, entro poche settimane, la liquidità detenuta in forma di 500 e 1.000 rupie.

Dal governo non si ammette il flop e si fa notare come la quantità di cash “illegale” sarebbe stata del 20% più alta senza il ritiro ordinato nel novembre scorso e che il reale obiettivo dell’esecutivo sarebbe stato di incentivare il passaggio a una società “cashless”. Sarà, ma i dati dicono che appena l’1% delle banconote ritirate non è più tornato indietro e che gli indiani restano affezionati alla carta-moneta.

Dunque, l’economia sommersa in India sarebbe quasi inesistente? Ovvio che no. Semplicemente, chi non avrebbe potuto giustificare certe somme, non le ha portate in banca. Domanda: e che fine hanno fatto quelle banconote? Già nei primissimi giorni dall’annuncio shock del governo si era parlato di un mercato nero delle rupie fuori corso. In pratica, un evasore fiscale o un criminale che non avrebbe potuto giustificare il deposito di cifre elevate in banca ha ceduto a terzi le banconote ritirate, come amici e parenti, oppure a vere e proprie organizzazioni di riciclaggio del denaro in nero, chiaramente a sconto. (Leggi anche: Lotta al contante, prezzi oro esplosi fino a 2.300 dollari in India)

Mercato nero delle rupie con lotta al contante

“Vuoi comprarti le mie 100 banconote da 1.000 rupie che non potrei portare in banca? Te le vendo per meno del loro valore nominale di 100.000 rupie, così che tu possa intascarne la differenza”. Se per ipotesi, si fosse applicato uno sconto del 10%, chi le ha acquistate si sarebbe messo in tasca 10.000 rupie e il suo unico compito sarebbe stato di liberare l’offerente da una liquidità impresentabile. In un certo senso, la lotta al contante avrebbe redistribuito un po’ di ricchezza in India, dato che i grandi detentori di cash in nero avrebbero pagato loro concittadini meno benestanti per sbarazzarsene. Stiamo estremizzando il ragionamento, ma è quanto sia accaduto davvero, con il paradosso che la lotta al contante avrebbe alimentato proprio quella economia sommersa che si voleva combattere, facendo fiorire gli affari di cricche di possibili criminali.

Il governo non ci ha guadagnato praticamente nulla, però. La crescita ha subito una temporanea decelerazione per la carenza di liquidità per gli scambi. Alla base di tale fallimento vi sarebbe stata la velocità con cui le banconote incriminate sono state messe fuori corso. L’India non è nuova a simili operazioni. Una “demonetizzazione” simile avvenne nel lontano 1978, ma allora a non tornare più indietro era stato il 15% del cash oggetto della misura. Se si fosse concesso più tempo agli indiani per scambiare le vecchie banconote con le nuove, molto probabilmente si sarebbe raggiunto un risultato pressappoco simile, ma a beneficio dei consumi, quindi, della crescita economica anche nel breve periodo. Perché? Le famiglie con liquidità in eccesso, rispetto a quella dichiarabile senza fare scattare i controlli fiscali, se ne sarebbero liberate attraverso acquisti di beni e servizi, magari anticipandoli per una buona parte. In questo modo, non avrebbero pagato nessuno per sbarazzarsene e avrebbero contribuito alla crescita.

Evidentemente, a Nuova Delhi è prevalsa la volontà di mostrarsi quanto più duri possibili contro evasori fiscali e criminali, ma la “ferocia” non ha pagato. Vi ricorda qualcosa? Nel 2012 fu avviata dall’allora governo Monti una campagna anti-evasione con blitz mediatici nelle località turistiche e controlli a tappeto, anche controllando la proprietà delle auto di grossa cilindrata in sosta sulle strade italiane. I dati Istat ci hanno dimostrato che questo clima di terrore non solo non avrebbe ridotto di una virgola le dimensioni dell’economia sommersa, ma l’avrebbe persino leggermente accresciuta. E anche nel nostro caso, nel frattempo sono diminuiti i consumi delle famiglie. (Leggi anche: Economia sommersa cresciuta con stretta contante e terrorismo fiscale)