La Banca del Libano erogherà prestiti a zero interessi alle famiglie e alle imprese che hanno perso un immobile durante le due esplosioni di martedì, le quali hanno provocato oltre 100 vittime e migliaia di feriti, mandando in mezzo a una strada circa 300.000 persone. La banca centrale di Beirut ha qualcosa da farsi perdonare, in effetti, perché se l’economia nazionale è precipitata da mesi nel baratro, per buona parte lo si deve ad essa.

Il Libano non è un paese come gli altri dell’area.

Un tempo, veniva definito “la Svizzera del Medio Oriente” e si è sempre caratterizzato per uno stile di vita dei suoi abitanti molto simile a quello dei popoli occidentali. La rovinosa guerra civile, cessata nel 1990, non ha mutato queste caratteristiche, tant’è che le stesse immagini terribili di questi giorni ci consegnano, al di là delle scene di distruzione, la foto di un paese, tutto sommato, dignitoso e mediamente benestante.

Ed è stato così, grazie anche a uno stratagemma escogitato nel 1997, quando la lira libanese venne ancorata al dollaro a un tasso di cambio di 1.507,50. Il “peg” ha consentito alla popolazione di godere di una valuta stabile, di mantenere nel tempo il potere di acquisto e di potersi permettere, quindi, uno stile di vita altrimenti proibitivo. Ma c’era un grosso problema: il Libano non esporta praticamente nulla, mentre importa quasi tutto. Il disavanzo commerciale si è attestato negli ultimi anni a circa un terzo del pil. Sarebbe come se l’Italia importasse dall’estero sopra i 500 miliardi di euro di beni e servizi in più di quelli che riuscisse ad esportare.

L’ex Svizzera del Medio Oriente ora è in fiamme, non esclusa la pista dell’attentato

La mega-truffa di stato

Sappiamo che un peg non si può reggere su queste basi, perché può essere mantenuto fino a quando si hanno dollari in cassa, i quali fuoriescono per via delle importazioni in eccesso.

Com’è stato possibile, quindi, per la banca centrale mantenere questo sistema di cambio per oltre due decenni? Attirando capitali dall’estero, specie dalla vicina Siria. Offriva alle banche domestiche alti interessi sui depositi in dollari e queste a loro volta li giravano ai clienti. E così, un risparmiatore straniero ha potuto incassare tassi d’interesse anche di oltre il 10% all’anno sui suoi depositi in valuta americana.

Questo sistema è stato una truffa organizzata dalla banca centrale, un gigantesco “schema Ponzi”, in quanto gli alti interessi venivano pagati non grazie al reimpiego dei capitali, bensì attirandone di nuovi. Esattamente come avviene con le catene di Sant’Antonio: pago te se mi porti un cliente e così all’infinito, fino a quando arrivano clienti nuovi. Quando così non sarà, la piramide crolla e la truffa viene svelata. Un po’ per compiacenza, un po’ per bisogno (i siriani cercavano un “porto sicuro” per mettere i capitali al sicuro dalla guerra), questo schema si è protratto fino all’autunno scorso, quando l’allora governo di Saad Hariri dovette dimettersi per le furenti proteste di piazza contro corruzione e crisi.

La crisi del Libano somiglia sempre più a quella del Venezuela

La fine del peg e l’inizio della miseria

Dall’estero, i capitali hanno cessato di affluire e la banca centrale non ha avuto più dollari a sufficienza per pagare gli interessi sui depositi. A questo punto, le banche hanno introdotto in autonomia controlli sui capitali, limitando i prelievi e i pagamenti con carte. Tutto, pur di frenare i deflussi ed evitare di saltare in aria per assenza di valuta da restituire ai clienti. Ma così facendo, a saltare miseramente è stato il peg, che ufficialmente viene ancora mantenuto dallo stato, ma nei fatti esistono già diversi tassi di cambio alternativi: per oltre 3.900 lire si acquista un dollaro per importare beni non essenziali e per effettuare le conversioni dei depositi bancari.

Al mercato nero, poi, servono 8.000 lire per un dollaro e questo è diventato nei fatti il tasso di cambio di riferimento per la popolazione.

Ed ecco che improvvisamente i libanesi si sono scoperti poveri, con i loro redditi ad essere crollati dai circa 900 euro al mese a 180 euro. Naturale il senso di frustrazione e disperazione che aveva colpito il paese ancor prima che martedì arrivasse l’apocalisse a Beirut.

Aiuti internazionali o meno, la ricostruzione dell’economia e quella materiale nel Libano non saranno né brevi e né indolori. Serviranno riforme impopolari e l’inflazione, che già a giugno era esplosa al 90%, potrebbe galoppare a ritmi ancora più veloci, decimando il potere di acquisto degli 8 milioni di abitanti. L’economia non era competitiva di suo, ma tra Covid e contraccolpo quasi certo al turismo dopo le due esplosioni nella capitale di sicuro sarà ancora più difficile rilanciare le esportazioni, semmai saranno le importazioni ad implodere, ma per effetto del crollo dei redditi interni. E sullo sfondo resta il timore di un ritorno agli scontri violenti degli anni bui.

Libano, banche nel mirino dei risparmiatori e le proteste non si fermano

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