Termina oggi il Ramadan e la crisi in Libano ha reso il digiuno praticato dai mussulmani relativamente semplice da seguire quest’anno. Anzi, il problema c’è stato la sera, quando i fedeli sono soliti consumare l’“Iftar”, il pasto ammesso dopo il tramonto. Per la gran parte delle famiglie, infatti, mettere qualcosa da mangiare sul piatto è divenuto estremamente complicato. I prezzi dei generi alimentari sono esplosi (+400% annuo a dicembre) e nei supermercati si trova pure poco. Le importazioni sono state ridotte al minimo, mancano i dollari per acquistare prodotti dall’estero.

La situazione è a dir poco disperata. Non solo la crisi in Libano si aggrava incessantemente, ma la politica non smette di litigare. Si attende da 9 mesi la formazione del nuovo governo. La sensazione è che nessun partito voglia rischiare di essere travolto dall’impopolarità e preferisce abbandonare la barca che affonda. Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian ha fatto visita a Beirut per mediare tra le parti e spronarle a raggiungere un accordo. Per l’ennesima volta se n’è dovuto tornare a Parigi a mani vuote.

Libano verso il blackout

E poiché al peggio non c’è mai fine, adesso il paese rischia persino di finire al buio. La società turca Karadeniz, che fornisce energia elettrica dalle chiatte in sosta al largo delle coste libanesi, ha minacciato il taglio delle forniture. Chiede che le autorità dissequestrino le chiatte e che le siano pagati 18 mesi di arretrati. Nei giorni scorsi, un procuratore ha ordinato il sequestro a seguito di un servizio su al Jadeed per un presunto giro di corruzione legato al contratto.

Karadeniz fornisce 400 MW di energia al Libano, che ne consumerebbe intorno ai 2.700 MW, producendone autonomamente solo 900. Già da anni, le famiglie sono costrette a rifornirsi di generatori elettrici per non rimanere al buio durante i blackout praticamente quotidiani.

Come tutto qui, anche il mercato dell’energia non funziona per niente. Le bollette sussidiate sono rimaste ai livelli di fine anni Novanta e la società statale non ha le risorse sufficienti da investire per potenziare la sua offerta.

Dicevamo, un Ramadan abbastanza triste quello di quest’anno. Cresce a dismisura il numero dei poveri assoluti costretti a rovistare nei cassonetti per trovare qualcosa da mangiare. Tra loro, tantissimi dei rifugiati siriani (1,5 milioni nel paese), ma anche uomini e donne stremati da oltre un anno di crisi nerissima. Il cambio sul mercato nero ha perso l’88% e si sta assestando nelle ultime settimane a circa 12.700 lire contro un dollaro. Il tasso ufficiale resta a 1.507. Tuttavia, la banca centrale sta studiando un piano per consentire ai risparmiatori libanesi di accedere ai conti in dollari con molte meno restrizioni.

Crisi in Libano in stile Venezuela

In attesa di una “copertura legale” da parte del Parlamento, l’istituto prevede la possibilità di ritirare fino a 25.000 dollari e con riferimento a ogni valuta. Ma non ha fatto sapere a quale tasso di cambio avverrebbe il ritiro dei depositi. Ad oggi, è possibile accedere ai depositi in dollari a un cambio di 3.900 e per importi assai limitati. Dall’inizio di questa violenta crisi finanziaria, le banche hanno autonomamente imposto controlli sui capitali, al fine di impedirne la fuga all’estero.

Il governo uscente vorrebbe tagliare i sussidi, che gravano sul bilancio statale e distorcono la formazione dei prezzi, sostituendoli con una card per le famiglie più bisognose. Ma l’attuazione di questa misura appare tutt’altro che semplice. Eppure, le alternative non esistono. A secco di riserve valutarie, la banca centrale con ogni probabilità sarà obbligata da qui a non molto a svalutare il cambio, non potendosi più permettere un cambio forte per le importazioni di prima necessità.

L’unica certezza per i libanesi è che l’inflazione già al 160% sembra destinata ad accelerare di gran lunga. Una deriva venezuelana, che va in scena sotto gli occhi irresponsabili e omissivi dei politici.

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