C’è chi paragona l’attuale crisi del Libano ai tempi bui della guerra civile tra il 1975 e il 1990. In effetti, a parte i tremendi lutti che quella fase storica provocò, le similitudini non mancano. Negli anni Sessanta e Settanta, un dollaro veniva ancora scambiato contro 3 lire. Al termine della guerra, ne acquistava ben 1.000. E nel 1997, Beirut fissava un “peg” a 1.507 contro il biglietto verde, che nell’ultimo anno e mezzo non ha più retto alla fuga dei capitali. Sul mercato nero, adesso un dollaro si scambia contro 12.700 lire, pari a una svalutazione di quasi il 90%.

Nelle scorse settimane, si era arrivati a 15.000 contro un dollaro.

E questo spiega la ragione per cui la crisi del Libano si aggrava ogni giorno di più. Poiché il paese importa circa l’80% dei beni che consuma, il collasso della lira decima il potere di acquisto degli stipendi. A dicembre, l’inflazione era aumentata di oltre il 145% su base annua. I prezzi dei generi alimentari risultavano aumentati del 400%, cioè quintuplicati in appena 12 mesi.

Ad analizzare il paniere-tipo, si capisce quanto la situazione sia grave. Un litro di latte oggi costa intorno a 10.000 lire contro le 3.000 di due anni fa, prima che iniziasse la crisi del Libano. Al cambio ufficiale, significherebbe un costo di oltre 6 dollari, mentre utilizzando il cambio vigente sul mercato nero saremmo a meno di 50 centesimi. Peggio è andata a prodotti come l’olio per cucinare, schizzato da 2.000 a 31.000 lire dal 2019 ad oggi. Un chilo di riso, invece, è salito da 1.100 a 6.400 lire. Un chilo di pollo è passato da 2.800 a 23.000 lire. E così via.

La crisi del Libano ha responsabilità diffuse

Capite benissimo quanto la crisi del Libano stia impattando sulle famiglie. Metà della popolazione, qualcosa come 3 milioni di persone, vivrebbe ormai in povertà. Del resto, lo stipendio medio è stimato a 2.140.000 lire, che al cambio ufficiale farebbero ancora circa 1.420 dollari, ma nei fatti valgono meno di 170 dollari al mese, circa 4,70 euro al giorno.

E fortunato chi li prende. I negozi chiudono, la gente è senza lavoro, fare la spesa è diventato un lusso.

Il peggio deve ancora arrivare. La Banca del Libano sta rimanendo a corto di riserve valutarie, per cui si trova costretta a tagliare i sussidi per conservare quanti più dollari possibili in cassa. Nel mirino vi è il carburante, ma più in generale si sta ipotizzando una maxi-svalutazione del cambio. E così, la gente corre a comprare prima che i beni rincarino ancora di più, accelerandone la corsa dei prezzi e aggravandone la carenza sugli scaffali dei negozi. La crisi del Libano somiglia sempre più a quella che inizialmente si registrò nel Venezuela di Nicolas Maduro, prima che sfociasse nell’iperinflazione.

E immancabile arriva il capro espiatorio, individuato dalla politica nel governatore centrale Riad Salameh. Il presidente Michel Aoun lo ha accusato esplicitamente di essere responsabile della crisi del Libano, impedendo l’audit sui conti dell’istituto. Esso è condizione necessaria per l’esborso di aiuti da parte degli stati stranieri. Per quanto gran parte delle colpe siano effettivamente da addebitare al gigantesco schema Ponzi messo in atto dalla banca centrale nei decenni precedenti, la politica è stata correa. In primis, fingendo di non vedere e, soprattutto, sperperando denaro pubblico per alimentare pratiche clientelari. E terzo, non garantendo un governo nel pieno dei poteri nel bel mezzo della peggiore crisi del Libano dai tempi della guerra civile.

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