Raramente si è visto un caos politico simile in Europa. Ben sei governi sono appesi a un filo, uno è da poco caduto, oltre a quello italiano che continua a preoccupare mercati e Commissione UE per le sue politiche erratiche e percepite come “euro-scettiche”. Ma se il caso Italia è ufficialmente aperto dal maggio scorso, ossia dall’avvio delle trattative tra Movimento 5 Stelle e Lega per la nascita del governo Conte, ad esso si stanno aggiungendo con una sequenza a dir poco impressionante altri sei dossier, tutti politicamente sensibili.

Partiamo dal più imminente, che riguarda il Regno Unito. Domani, il Parlamento di Londra dovrà votare sull’accordo sottoscritto dal governo May con Bruxelles sulla Brexit e una bocciatura sembra lo scenario più probabile. Contrari per ragioni molto diverse sono gli esponenti laburisti all’opposizione, i liberaldemocratici europeisti, l’ala più euro-scettica dei conservatori e gli alleati nord-irlandesi del DUP. Nel tentativo estremo di convincere i deputati a non affossare l’intesa, la premier Theresa May ha nelle scorse ore fatto presente che nel caso di bocciatura, il rischio che si corre sarebbe di non avere la Brexit. Un messaggio rivolto essenzialmente all’ala destra dei Tories, capitanata dall’ex ministro Boris Johnson, già sindaco di Londra.

La ‘hard Brexit’ si avvicina, ecco l’altro capolavoro dei commissari UE 

In realtà, se domani l’accordo non fosse ratificato, lo scenario più probabile sarebbe il caos. Il governo sarebbe praticamente paralizzato e al contempo avrebbe la necessità di ottenere dalla UE la proroga dei termini indicati nell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona per trattare l’uscita formale del Regno Unito con più calma, altrimenti alla fine di marzo il divorzio tra Londra e Bruxelles avverrebbe senza regole per disciplinare le relazioni tra le due parti, con la conseguenza che scatterebbero i dazi reciproci sulle merci e i servizi scambiati e una montagna di potenziali conflitti su vari temi, tra cui pesca e agricoltura.

Brexiters più convinti puntano a portare a casa con le cattive il modello norvegese, ma i commissari faranno verosimilmente di tutto per impedire che la spuntino.

Per l’economia europea in rallentamento, sarebbe un colpo. La sola Germania esporta 30 miliardi netti all’anno verso il Regno Unito, lo 0,9% del suo pil. In Italia e Francia, siamo intorno alla metà in valore assoluto. Insomma, la Brexit senza accordo sarebbe un pessimo affare per quelli che rimangono nella UE, non solo per Londra stessa.

La crisi politica nel cuore d’Europa

Ma nemmeno a Parigi si ride. I “gilet gialli” sembrano aver preso in ostaggio l’economia francese, che inizia a segnalare una brusca frenata, tra produzione industriale in calo a novembre (come in Germania, Italia, Portogallo e Lituania) e stime di crescita riviste al ribasso già per l’ultimo trimestre del 2018. Le proteste diffuse si sono tradotte in blocchi stradali, che hanno interrotto la catena produttiva e il rifornimento dei negozi sotto Natale, per non parlare del contraccolpo al turismo, per via delle migliaia di cancellazioni delle prenotazioni di alberghi e voli. Lungi dall’essere un fenomeno passeggero, però, il rallentamento francese s’inserisce in una condizione di debolezza generalizzata in Europa e rischia di essere accentuato dalla crisi politica, con la presidenza Macron paralizzata dopo appena un anno e mezzo dal suo insediamento. L’agenda delle riforme è in stallo e a crescere è adesso solo il deficit di bilancio, al fine di stimolare l’economia e placare le ire dei francesi. I sondaggi indicano il partito di maggioranza, La République En Marche!, in calo nei consensi e dietro al Ressemblement National di Marine Le Pen, quando mancano quattro mesi alle elezioni europee.

I gilet gialli segnano la fine di Macron e della tecnocrazia europea

La prima economia europea non se la passa meglio. Il governo tedesco è da mesi in stallo sulle tensioni tra i partner della maggioranza e con una cancelliera Angela Merkel sempre più debole politicamente, tanto da avere dovuto rinunciare alla segreteria del suo partito cristiano-democratico (CDU), ereditata per una manciata di voti dalla delfina Annegret Kramp-Karrenbauer a dicembre. Il rischio recessione a cui va incontro la Germania cade in una fase, che non consente a chi di dovere di intervenire tempestivamente con l’assunzione di decisioni in politica economica, dati i veti incrociati tra conservatori e socialdemocratici e le divisioni tra i primi.

Le altre crisi di governo

Nel frattempo, la Grecia dopodomani potrebbe tornare ad elezioni anticipate sull’uscita della destra euro-scettica dal governo Tsipras, in contrasto con Syriza sull’accordo con la Macedonia sul nome della repubblica balcanica. La legislatura scade a settembre e se si andasse al voto oggi, dicono i sondaggi, il partito anti-austerity del premier perderebbe sonoramente, scavalcato dai conservatori di Nuova Democrazia. Dall’altra parte dell’Europa, in Spagna, le cose si sono messe male per il governo socialista di Pedro Sanchez, che a giorni rischia di vedersi bocciata la legge di bilancio.

Popolari e liberali di Ciudadanos gli hanno già impedito di alzare il deficit e già il premier li accusa di essere causa del rallentamento economico in corso, puntando al consenso con misure di spesa, come l’innalzamento del salario minimo del 22% e dei trasferimenti alla Catalogna indipendentista. Fatto sta che Popolari, Ciudadanos e destra euro-scettica di Vox hanno appena inaugurato una inedita maggioranza in Andalusia, che presto potrebbe diventare realtà nazionale, anche se Vox ancora alla Cortes di Madrid non ha un solo deputato, ma stando ai sondaggi ne manderebbe fino a 45 con le nuove elezioni, praticamente la metà di quelli socialisti. Nel caso di bocciatura del bilancio, le elezioni anticipate sarebbero lo sbocco più probabile.

E anche la Svezia è politicamente in impasse dopo quattro mesi dalle elezioni, senza un governo nel pieno dei poteri. I socialdemocratici del premier uscente Stefan Loefven si sono appena accordati con Verdi, Liberali e Centro per formare una maggioranza parlamentare, che avrebbe ancora bisogno della Sinistra per non dipendere dai voti della destra euro-scettica di Democratici Svedesi. Sta di fatto che non sembra che lo stallo sia destinato a sbloccarsi, anche perché l’ipotetica nuova maggioranza sarebbe paralizzata dai veti incrociati tra i due partiti di centro-destra e i due del centro-sinistra. Tutto questo, con un governo del Belgio caduto il mese scorso sul “Global Compact” e che rischia di essere succeduto dal nuovo solo dopo parecchi mesi dalle elezioni di maggio, date le trattative puntualmente lunghe e travagliate tra i gruppi del frastagliato panorama parlamentare di Bruxelles. Nel mezzo di questo caos, la BCE resta isolata nella responsabilità di gestione della crisi in arrivo, mentre la Commissione europea, già auto-screditatasi da anni di cattiva governance, si trova pure a fine mandato. Il 2019 rischia di essere il nuovo 2008 per l’Europa, quello di origine di una crisi senza nemmeno una guida capace di gestirla, mentre America e Cina quanto meno potranno confidare in leadership potenti e influenti.

Svezia e Svizzera due canarini in miniera per l’Europa

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