La domanda politica alle elezioni appena celebrate sembra chiarissima: più attenzione alla crescita, alla sicurezza sociale, al lavoro stabile e lotta al precariato. I numeri ufficiali dell’Istat ci dicono che abbiamo come Italia tra i più bassi tassi di occupazione nel mondo sviluppato (58% contro una media OCSE ed europea del 66%) e tra le donne resta sotto il 50%, mentre il 95% dei nuovi posti di lavoro creati è a termine, il 60% di tutti quelli degli ultimi 4 anni, ovvero di quel milione di occupati in più e dovuto in buona parte al Jobs Act dell’allora governo Renzi.

Al contempo, la disoccupazione giovanile resta all’11%, tra i giovani vale 3 volte tanto e al sud riguarda la metà della popolazione interessata. Naturale che un’economia così malconcia si chieda un deciso cambio di passo. Non si tratta di populismo, bensì di bocciatura di politiche, che con ogni evidenza hanno fallito nel loro obiettivo di creare occupazione e possibilmente stabile.

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Detto ciò, le soluzioni prospettate da chi, come il Movimento 5 Stelle, ha vinto senza dubbio le elezioni non è detto che si rivelerebbero altrettanto efficaci, nel caso trovassero attuazione. L’idea di un lavoro stabile, ben retribuito e qualificato fa gola a qualsiasi elettore, ma bisogna interrogarsi su come arrivare all’obiettivo.

Cosa serve al mercato del lavoro

L’Italia ha oggi un peso della tassazione sul lavoro con pochi eguali nel mondo avanzato. Il cosiddetto cuneo fiscale deprime le buste paga e tiene alto il costo sostenuto dall’azienda. Alla fine, tutti ne escono scontenti: l’imprenditore paga tanto e il lavoratore percepisce poco. La distanza tra lordo e netto è una delle cause principali della bassa produttività del lavoro in Italia, che a sua volta tiene bassi i salari, innescando un circolo vizioso tra domanda interna insufficiente e sottoccupazione, nonché occupazione precaria e spesso poco qualificata.

Tagliare il cuneo fiscale, però, implica ripensare alla onerosa macchina burocratica, che blocca la nostra economia.

Altre cause della bassa produttività si hanno nelle minuscole dimensioni delle imprese italiane, che se da un lato rappresentano l’ossatura del sistema produttivo e occupazionale nazionale, dall’altro ne limitano la crescita per via dei sotto-investimenti, frutto di capitalizzazioni insufficienti e di conseguente scarso accesso al credito bancario. La crescita dimensionale delle imprese si può sostenere, rimuovendo quella miriade di leggi punitive verso chi possiede dimensioni maggiori, come l’art.18 che scatta, pur ammorbidito dal Jobs Act, sopra i 15 dipendenti, oppure gli incentivi fiscali spesso mirati solo a chi ha patrimoni e/o dipendenti al di sotto di un dato livello.

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La flessibilità rimane essenziale per stimolare l’occupazione, perché rende meno problematico per l’impresa assumere all’occorrenza. Certo, se l’assunzione non si traduce che raramente in occupazione stabile, il problema nasce a monte, ovvero dalle scarse prospettive che l’impresa ha, conseguenza non sempre di incapacità propria a resistere alla sempre più accesa concorrenza globale di mercato, ma anche di un sistema normativo e fiscale penalizzante, nonché di una carenza infrastrutturale, che al sud è letteralmente drammatica.

I demagoghi garantiscono solo illusioni

Retribuzioni maggiori e lavoro qualificato, poi, viaggiano in tandem con il grado di istruzione e specializzazione del lavoratore. E qui, le colpe sono diffuse. Il mondo della scuola è del tutto sconnesso dalla realtà lavorativa in Italia e nemmeno un’istruzione universitaria garantisce spesso nozioni basilari per entrare nel mercato del lavoro con un bagaglio di conoscenze immediatamente spendibili. Il resto lo fanno le caratteristiche del nostro tessuto imprenditoriale, volto più alla produzione di beni a basso contenuto tecnologico, esposti alla concorrenza delle economie emergenti e, pertanto, difficilmente potranno garantire ai dipendenti salari soddisfacenti.

Da questo punto di vista, Industria 4.0 sta smuovendo positivamente le acque, spingendo le imprese italiane a puntare sull’innovazione tecnologica, anche se la cultura imprenditoriale di un paese non la si cambia in un mese o qualche anno.

Chi promette di creare lavoro con leggi più rigide sulle assunzioni e imponendo salari minimi orari persino insostenibili, oltre che garantendo un reddito alternativo (cosiddetto salario di riserva) per i casi di bassi salari e/o di non occupazione, potrà anche legittimamente scaldare i cuori degli elettori stanchi e sfiduciati di una ripresa che non arriva mai davvero e di un declino ormai inarrestabile da un quarto di secolo, ma non fornirà loro risposte, bensì solide illusioni, parafrasando un noto messaggio pubblicitario. Viceversa, soluzioni siffatte avrebbero quale unico risultato di generare maggiore disoccupazione, specie tra i lavoratori meno qualificati e specie nelle aree economicamente più depresse d’Italia. Proprio in questi giorni, dal Movimento 5 Stelle arriva la proposta di tagliare l’orario settimanale di lavoro a parità di salario, all’insegna del “lavorare tutti, lavorare meno”, quasi scimmiottando un recente accordo dei metalmeccanici tedeschi, le cui parti hanno agito, però, su base volontaria e in condizioni macroeconomiche del tutto differenti dalle nostre.

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Rifuggite da chi fa confronti con paesi come la Germania, il cui tasso di occupazione supera il 75% e quello di disoccupazione riguarda ormai meno del 4% della popolazione occupata. Del resto, pure l’allora “grande malato d’Europa” a inizio Millennio dovette rendere più flessibile il suo mercato del lavoro con una riforma restrittiva degli ammortizzatori sociali nota come Hartz IV, risultata molto impopolare nel breve termine e costata la cancelleria al socialdemocratico Gerhard Schroeder, ma di cui hanno potuto godere milioni di lavoratori tedeschi, se è vero che da allora il tasso di occupazione in Germania è aumentato del 10% e quello di disoccupazione si è più che dimezzato.

Ma a Berlino la politica non ha propinato soluzioni miracolistiche. La vera differenza con l’estero sta tutta nella nostra pessima governance.

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