Venerdì 22 marzo, il presidente cinese Xi Jinping firmerà a Roma con il governo Conte un accordo per fare dell’Italia l’avamposto occidentale ad oggi della “Road and Belt Initiative”. Saremmo il primo membro del G7 a fare parte della cosiddetta “Via della Seta”, un corridoio che raggruppa decine di stati dell’Asia e dell’Europa (sinora) centro-orientale, che nelle intenzioni di Pechino ricreerebbe entro il 2049 la vecchia via commerciale di cui scrisse Marco Polo e che avrebbe unito per secoli la Cina al Vecchio Continente sul piano degli scambi.

Ma Garrett Marquis, consigliere economico del presidente americano Donald Trump, ha avvertito dalle colonne del “Financial Times” che l’Italia non dovrebbe avallare un progetto “studiato dalla Cina per la Cina” e che rischia di trasformarci in un “cavallo di Troia in Europa”.

L’America è giustamente, dal suo punto di vista, preoccupata per quella che sarebbe l’attuazione di una strategia cinese di allargamento della propria influenza a tutti gli stati che dai suoi confini arrivano fino all’Europa, con l’obiettivo di rendere Pechino da qui a metà secolo una superpotenza economica e politica, in grado di contrastare alla pari l’America, anzi di godere di un vantaggio relazionale nell’Eurasia. Si calcola, ad esempio, che dall’anno prossimo saranno 5.000 i treni merci che collegheranno i due continenti. Per l’Italia, una opportunità straordinaria e forse irripetibile di porsi nuovamente al centro d’Europa, sfruttando la propria posizione geografica strategica nel Mediterraneo.

Far parte della nuova Via della Seta significherebbe nel concreto offrire, in particolare, i porti come punti di transito delle merci cinesi. Tuttavia, se fosse solo questo, rischia di avere ragione la Casa Bianca, cioè diventeremmo semplicemente un centro di smistamento di prodotti fabbricati a oltre 10.000 km di lontananza. In realtà, essere parte integrante della rete implicherebbe investimenti infrastrutturali per l’ammodernamento di porti, strade, ferrovie, capaci di colmare il gap che ci separa con il resto d’Europa, incrementando la produttività del Meridione, in particolare, rendendolo più competitivo.

Non abbiamo sinora dettagli concreti sull’accordo che verrà siglato e sul quale sia Luigi Di Maio per il Movimento 5 Stelle, sia la Lega si sono espressi dubbiosi, sostenendo la necessità che esso serva realmente alla nostra economia e non si traduca in un vantaggio solo per la Cina.

Perché la Cina può aiutare l’Italia a contenere lo spread

L’ira di Trump contro l’accordo Italia-Cina

E’ la prima volta che l’amministrazione Trump e il governo Conte appaiono distanti su una questione, peraltro, della estrema importanza. Ad oggi, il presidente americano ha speso solo parole di lode verso il premier italiano, evidenziandone la linea dura efficace sull’immigrazione e di fatto sostenendone la lotta contro Bruxelles. Il fatto è che l’Italia cerca da mesi una sponda anche a Pechino. Nel settembre scorso, prima che mettesse mano alla manovra di bilancio, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, aveva fatto visita proprio alla capitale cinese, che conosce bene per via dei suoi studi accademici. In quell’occasione, si speculò che avesse chiesto al governo di Li Keqiang sostegno per il nostro debito pubblico.

E qui veniamo a un’impellenza di Roma di questi mesi: trovare investitori stranieri che acquistino BTp e facciano così scendere i rendimenti. Trump aveva promesso aiuto in tal senso da quest’anno, quando Conte era andato a trovarlo a Washington in visita ufficiale. In che modo, non è stato possibile saperlo, anche perché tra America e Cina vi è una rilevante differenza in favore della seconda: Pechino, non Washington, dispone di un enorme fondo sovrano, accumulato in decenni di grossi avanzi commerciali. In pratica, le imprese cinesi esportano più di quanto importino, con ciò incassando dollari, euro, sterline, etc.

Queste valute in eccesso sugli acquisti di beni e servizi dal resto del mondo equivalgono a oltre 3.000 miliardi di dollari, di cui un terzo investito in titoli del debito USA.

La Cina avrebbe la potenza economica e persino la volontà di diversificare i propri investimenti, così da non esporsi a rischi eccessivi sui Treasuries. Punterebbe senza grossi problemi parte di quei 3.000 miliardi sui BTp, ma non gratis. Pretende qualcosa in cambio sul piano politico-economico. La moneta di scambio potrebbe essere proprio l’adesione dell’Italia alla Via della Seta, con due conseguenze apparentemente positive per la nostra economia: il rilancio degli investimenti dall’estero di stimolo alla crescita del pil; aumento della domanda di bond con annesso calo dei rendimenti e sollievo per i conti pubblici. Del resto, se fino a Trump nemmeno l’America ha osato indispettire più di tanto Pechino è stato sostanzialmente per il suo ruolo cruciale nel finanziamento del debito pubblico a stelle e strisce. E sì che il dollaro è valuta di riserva mondiale, per cui i Treasuries non avrebbero problemi ad attirare capitali da chicchessia.

Davvero Trump o Putin aiuteranno l’Italia comprandosi il nostro debito pubblico? 

Senza crescita, le vecchie alleanze scricchiolano

Realisticamente, però, non dovremmo immaginare che la Cina acquisti BTp per centinaia di miliardi di euro. L’Italia non è l’America e i suoi titoli del debito appaiono molto meno solidi, anche perché il Tesoro di Roma li emette in una moneta che non controlla, in quanto stampata da una banca centrale che ha sede a Francoforte e che non risponde minimamente ai desiderata dei governi dell’unione monetaria. Tuttavia, se anche solo investisse nei prossimi mesi un paio di decine di miliardi in titoli tricolori, sui mercati aumenterebbe la fiducia sulla capacità dell’Italia di rifinanziarsi a costi sostenibili e probabilmente aumenterebbero pure le pressioni politiche su Bruxelles per evitare uno scontro sul deficit con Roma, così da recuperarla alle vecchie alleanze.

Trump dal canto suo aumenterebbe il corteggiamento verso il nostro governo, anche se resterebbe da vedere con quali effetti pratici per il nostro debito, se non in forma di “moral suasion” nei confronti della finanza americana.

Che l’Italia segnali di volersi ritagliare non solo a parole margini di politica estera e commerciale autonomi rispetto agli alleati tradizionali non è in sé un fatto negativo, perché l’atteggiamento sprezzante a cui è stata sottoposta negli ultimi decenni dai partner europei, in particolare, riflette perlopiù le nostre posizioni scontatamente ossequiose. Ma l’adesione alla Via della Seta in sé potrebbe rivelarsi un boomerang nel lungo periodo, se si traducesse semplicemente in un lasciapassare alle merci cinesi. Diverso, invece, lo scenario di un’Italia che riuscisse a capitalizzare da tale scelta, magari intervenendo in una delle fasi finali della catena produttiva. Di certo c’è che l’esigenza di piazzare il debito pubblico ci costringe a comportarci in modo molto meno “sovrano” di quanto andiamo sbandierando ufficialmente. E poiché sinora non abbiamo visto alcun sostegno concreto dai partner tradizionali, nulla di strano che si mutino anche le alleanze.

D’altronde, non si può pensare che la terza economia dell’Eurozona, già in stagnazione da 25 anni, passi chissà quanti decenni ancora tra crescita zero e crisi del debito. Anche perché il nostro Paese ha già subito una indicibile beffa, quando cedendo agli interessi degli alleati si è ritratta dall’accordo per la costruzione della pipeline South Stream, che avrebbe fatto passare il gas russo dalle acque dell’Adriatico per portarlo nella Mitteleuropa, salvo scoprire pochi mesi dopo che la Germania, che pure aveva preteso lo stralcio, pattuiva con Mosca la costruzione di un gasdotto alternativo al nord e che dovrebbe passare per le sue acque, facendo infuriare Trump. Washington e Bruxelles sono avvertiti: la fedeltà ha un costo e l’era dei pasti gratis sembra essere volta al termine per assenza di risultati a cui ha portato.

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