Il debito pubblico italiano è arrivato a 2.327 miliardi di euro a maggio, segnando un nuovo record storico. Nella seconda metà dell’anno, lo stock si ridurrà per effetto dell’impiego di parte delle disponibilità liquide del Tesoro, pari ancora a 57,6 miliardi. La BCE continuerà ad acquistare BTp con il “quantitative easing” ai ritmi attuali fino al mese di settembre, dimezzandoli come quantità tra ottobre e dicembre e annullandoli dall’anno prossimo. A quel punto, per l’Italia arriverà l’appuntamento con la verità, perché se già oggi lo spread BTp-Bund sulla scadenza a 10 anni viaggia su livelli doppi di quelli spagnoli, cosa accadrà con il venir meno dell’unico acquirente marginale dei nostri titoli di stato? Si consideri che dall’inizio del QE al 30 giugno scorso, la BCE ha acquistato, in grossa parte tramite la Banca d’Italia, quasi 350 miliardi di euro di BTp su un totale di 160 miliardi di nuove emissioni nette.

Ciò significa che non solo sarebbe come se avesse acquistato tutto il nuovo debito emesso, ma ne avrebbe rastrellato per quasi 200 miliardi tra quello pregresso.

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Dall’anno prossimo, la liquidità reinvestita e derivante dalle scadenze dei BTp in mano alla BCE ammonterà ad appena 29 miliardi di euro, si stima. Urge trovare nuovi investitori privati, in assenza dei quali i rendimenti sovrani tricolori esploderebbero, quando già sono notevolmente più alti di quelli di quasi tutti gli altri stati nell’Eurozona. Eppure, ci sarebbe un investitore pubblico a poterci dare una mano: la Cina. Grazie ai surplus commerciali, Pechino ha accumulato al giugno scorso riserve in valuta straniera per 3.112 miliardi di dollari, di cui 1.182 investiti in Treasuries, i titoli di stato americani. Questi ammonterebbero, quindi, a oltre la metà di tutti gli assets denominati in dollari in possesso della Cina.

Pechino tenta da anni di diversificare le proprie riserve, sganciandosi dal dollaro, senza riuscirci. I due terzi delle sue riserve continuano ad essere investiti in dollari, un terzo nelle altre divise, tra cui l’euro. E se il governo cinese iniziasse a puntare sui nostri BTp? In fondo, tra le grandi economie avanzate, siamo l’unico emittente sovrano a offrire rendimenti in linea con quelli americani. Per i decennali, siamo al 2,5-2,6%, anche se a fine maggio eravamo arrivati all’apice di oltre il 3,3% sulle tensioni politiche. Con le prospettive di apprezzamento dell’euro nei prossimi anni, inserire titoli di stato denominati nella moneta unica si rivelerebbe un affare, almeno fino al punto in cui l’effetto cambio non prevarrà sul calo atteso dei prezzi per i nostri bond.

La Cina e il debito pubblico italiano

Ora, se la Cina volesse investire in titoli in euro, avrebbe scarse possibilità di scelta. I Bund offrono pochissimo, ancora sottozero fino alla scadenza dei 7 anni. Un trentennale tedesco rende poco più di un terzo di un decennale americano o italiano. L’offerta, oltretutto, resta scarsa, visto che il debito pubblico della Germania diminuisce non solo in rapporto al pil, bensì pure in valore assoluto, grazie agli avanzi fiscali registrati da Berlino sin dal 2014. In sostanza, le sue emissioni nette annue sono ormai negative.

Se immaginassimo che i BTp arrivassero a circa il 3% delle riserve cinesi, sul nostro mercato del debito sovrano si riserverebbero qualcosa come 90 miliardi di euro, sufficienti a rimpiazzare il QE per un paio di anni, tenendo conto dei reimpieghi di Francoforte. Sarebbe una mano santa contro lo spread, specie se innescasse un circolo virtuoso sui mercati, grazie alla fiducia ritrovata tra gli investitori sulla capacità del Tesoro di rifinanziarsi a costi accettabili anche dopo la fine degli stimoli monetari.

Esistono diverse ragioni, però, che frenerebbero i cinesi dal buttarsi sui nostri bond. Anzitutto, appaiono molto volatili. A metà maggio un decennale rendeva l’1,8%, oggi lo 0,7-0,8% in più. L’instabilità politica è una costante dell’Italia e non aiuta nemmeno la crisi di credibilità dell’Eurozona nel suo insieme, oltre che delle istituzioni comunitarie, entrambe esposte a rischi di sgretolamento.

Viste le cose da Pechino, un investimento massiccio in BTp presenta due criticità: esporsi a un non impensabile crollo dei prezzi (boom dei rendimenti) e ritrovarsi in futuro titoli denominati in una moneta diversa da quella nazionale italiana o persino inesistente, nel caso in cui l’euro davvero sparisse come moneta nell’area. Fino a quando questi pensieri baleneranno nella mente dei gestori sovrani e degli investitori istituzionali stranieri, nessun contrappeso reale al rischio spread potrà emergere su basi solide. E se a Roma si propinano ricette “sovraniste” sul debito pubblico, anziché agevolare, stiamo solo complicando la ricerca di un equilibrio post-QE.

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