Giornata complicata ieri per il gruppo francese delle telecomunicazioni Vivendi, i cui uffici di Parigi sono stati oggetto di perquisizione da parte degli uomini della Guardia di Finanza di Milano, insieme a quelli della gendarmeria francese, alla ricerca di documenti sull’affare Mediaset. Si è trattato dell’ultimo atto dell’inchiesta aperta dalla Procura del capoluogo lombardo su denuncia della famiglia Berlusconi con l’ipotesi di aggiotaggio e che vede tra gli indagati l’ad Arnaud de Puyfontaine e il patron del gruppo, Vincent Bollorè, un tempo amico proprio del nostro ex premier.

Tutto parte dalla rinuncia alla firma del contratto di acquisto di Mediaset Premium di Vivendi un anno fa, quando pochi mesi prima la società transalpina aveva formalizzato la sua intenzione di rilevarne l’intera quota in mano a Cologno Monzese e il 3,5% di Mediaset, in cambio dell’offerta del 3,5% del suo capitale al Biscione.

I vertici di Mediaset e la famiglia Berlusconi sostengono che quella di Bollorè e del suo braccio destro sia stata una mossa per provocare lo schianto del titolo della società italiana, che in effetti perse oltre il 40% del suo valore a novembre, rispetto al picco superiore ai 4 euro toccato nel maggio precedente. Una tesi avvalorata da quanto avvenne nelle settimane seguenti all’annuncio-shock di Parigi, ovvero l’ingresso di Vivendi nel capitale di Mediaset con poco meno del 30%, la soglia oltre la quale scatta l’obbligo di lanciare un’OPA per la legislazione finanziaria italiana. (Leggi anche: Dossier Mediaset-TIM passano per la Sicilia)

Dunque, Fedele Confalonieri e Piersilvio Berlusconi, rispettivamente presidente e vice del gruppo milanese, avrebbero buone argomentazioni nel sostenere che Bollorè abbia finto di essere interessato a Premium, quando il suo vero obiettivo sarebbe stato di provocare il collasso del titolo Mediaset con l’annuncio nei mesi seguenti dello stralcio del pre-accordo, in modo da acquisirne un capitale potenzialmente di controllo.

La vicenda Stx e la presidenza Macron

La vicenda sta assumendo i connotati di una querelle politica italo-francese e s’intreccia con il capitolo TIM da un lato e Fincantieri-Stx dall’altro. Accade, infatti, che Vivendi sia anche l’azionista di riferimento della compagnia telefonica a capo della rete con quasi il 24% del capitale. Che un unico soggetto sia in possesso di due società di rilevanti dimensioni nel mercato italiano delle tlc ha iniziato ad attirare le attenzioni delle nostre authorities, ma la svolta è avvenuta solo negli ultimi due mesi, ovvero dopo che il presidente francese Emmanuel Macron ha spodestato Fincantieri e Fondazione Cr Trieste dalla maggioranza assoluta del capitale di Stx, società della cantieristica navale transalpina, annullando la regolare acquisizione avvenuta nei primi mesi di quest’anno e nazionalizzando l’asset con l’obiettivo di rilanciarne l’attività.

A quel punto, a Roma la tensione è esplosa e il primo a muoversi con estrema velocità e fermezza è stato il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, che dalla fine di luglio tratta insieme al premier Paolo Gentiloni con l’Eliseo, al fine di non soccombere nella vicenda Fincantieri-Stx, rivendicando il diritto della società italiana di detenere il controllo dell’asset francese, non una quota paritetica a quella dello stato francese, come inizialmente avevano proposto per settimane Macron e il suo governo. Obiettivo parzialmente raggiunto, dato che l’ultima ipotesi di accordo consisterebbe in una ripartizione delle quote al 50% ciascuno, più l’1% che Parigi presterebbe per 12 anni alla società italiana, pur subordinandolo a un monitoraggio periodico per concordare la gestione di Stx. (Leggi anche: Come i francesi in Italia pagheranno cara la grandeur di Macron)

Tutti i colpi subiti dai francesi

Tuttavia, qualche giorno dopo la nazionalizzazione annunciata da Macron, Calenda ha acceso i fari su TIM, sostenendo che Vivendi sarebbe entrata nel capitale e salita fino a una posizione di controllo, senza averne comunicato alcunché al governo italiano, come prevederebbe un decreto del 2012, emanato dall’allora governo Monti e relativo ai cosiddetti assets “strategici”.

Esso consente al governo di esercitare la “golden power”, ovvero poteri pregnanti per bloccare operazioni ritenute lesive dell’interesse nazionale. E TIM è un asset strategico, essendo detentore della rete per le telecomunicazioni e gestendo una miriade di dati sensibili, come anche quelli del governo.

Vivendi rischia di vedersi comminata una maxi-multa per centinaia di milioni di euro, perché dalle indagini dell’esecutivo è emerso che sarebbe diventata azionista di controllo di fatto di TIM, senza avere adempiuto agli obblighi di comunicazione. Da Parigi si nega di possedere il controllo della compagnia italiana, ma nel frattempo i francesi hanno subito un sestuplo scacco da parte delle autorità tricolori: congelamento dei diritti di voto per la quota in Mediaset oltre il 10%, multa in arrivo sull’affare TIM, indagini della Procura meneghina sull’affare Mediaset, i dubbi espressi dall’Agcom sul mantenimento di quote di potenziale controllo in due società dominanti nel settore delle tlc, minaccia dello scorporo tra rete e servizio di TIM e obbligo di consolidare i bilanci francesi con quelli della controllata telefonica italiana. (Leggi anche: Scontro Italia-Francia su Stx-Fincantieri getta la maschera UE sul libero mercato)

Ipotesi spin-off in TIM

Nonostante Calenda e il resto del governo italiano abbiano sempre negato che l’apertura del fascicolo su Vivendi-TIM sia anche solo minimamente legato al caso Fincantieri-Stx, non serve un esperto di strategie politiche per capire che sia esattamente così. Roma ha reagito a un atto illegale e arrogante di Macron, che per ragioni di pura politica interna ha espropriato gli italiani di un controllo acquisito nel pieno rispetto delle norme e secondo le regole del mercato, mostrandosi liberale a parole e dirigista nei fatti. L’Italia non sta replicando con la stessa arroganza – e sarebbe stato sbagliato, perché due torti non fanno mai una ragione – bensì facendo finalmente rispettare alla lettera tutte le normative vigenti in materia finanziaria, ovvero essenzialmente quelle sugli obblighi di comunicazione e sul contrasto dei tentativi di monopolizzazione del mercato.

Non è finita, perché ieri de Puyfontaine si è detto “aperto” all’ipotesi di scorporo della rete dal servizio in TIM. Già, perché il governo di Roma punterebbe a sottrarre alla compagnia italiana proprio quell’asset strategico di cui sopra, separandolo dal resto del patrimonio aziendale e creando una realtà a parte, magari parzialmente quotata in borsa. Così facendo, i francesi si ritroverebbero a possedere formalmente la stessa compagnia, ma nei fatti svuotata del suo reale valore. Lo “spin-off” sarebbe operazione complessa già dalla sua valorizzazione, sulle cui stime esistono profonde divergenze di vedute, ma che mediamente si porrebbero nel range dei 10-15 miliardi di euro. Sarebbe come acquistare un immobile stracolmo di pezzi di antiquariato pregiato e qualcuno venisse a portarseli via. La Consob, infine, ha imposto a Vivendi di consolidare i suoi bilanci con quelli di TIM, essendo questa una controllata, operazione che appiopperebbe ai francesi il debito netto della compagnia pro-quota, ovvero per un valore di quasi 6,5 miliardi.

Siamo nel pieno di una “guerra” politico-finanziaria tra Italia e Francia, paradossalmente scatenata dall’arrivo alla presidenza di Macron, che avrebbe dovuto rappresentare una garanzia per gli investitori stranieri e per i rapporti di buon vicinato con il resto d’Europa. Al contrario, l’uomo si è mostrato astuto, anche se adesso sta facendo pagare ai suoi stessi imprenditori il prezzo della propria politica “alla Giove”, per usare una metafora utilizzata dallo stesso presidente per auto-descrivere sé stesso all’Eliseo. (Leggi anche: Perché la partita Stx-Fincantieri durerà mesi e Macron non ci regalerà nulla)