Quella che si conclude oggi è stata una settimana da incubo per l’Argentina, che resterà negli annali delle cronache finanziarie non solo nazionali. Il tasso di cambio tra pesos e dollari è crollato del 21% rispetto al venerdì scorso, mentre la Borsa di Buenos Aires ha perso un tondo 30%. In crollo verticale anche le obbligazioni di stato, con il titolo a 100 anni ad avere accusato un sobrio -37%. Cos’è successo? Domenica scorsa, le elezioni primarie hanno decretato la sconfitta del presidente Mauricio Macri e della sua coalizione di centro-destra di ben 15 punti percentuali verso il candidato peronista Alberto Fernandez, che corre per la presidenza in tandem con l’ex capo dello stato Cristina Fernandez de Kirchner, entrambi su posizioni ostili al mercato e alle riforme.

Il ritorno al passato è figlio della grave crisi economica in cui è sprofondata nuovamente l’Argentina, dove la recessione continua a mordere, l’inflazione è esplosa al 55% e il tasso di povertà è salito al 35%. Le riforme economiche attuate dal governo, per quanto necessarie per risolvere i disastri ereditati proprio dall’era Kirchner, si sono rivelate impopolari e, soprattutto, lente nel rilasciare i loro effetti benefici per il paese. A ciò ha contribuito l’eccessivo gradualismo con cui Macri ha cercato di far transitare l’economia, che alla fine ha stancato gli stessi mercati oggi spaventati dalla prospettiva assai concreta di una presidenza Fernandez.

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Terzo default in vista per l’Argentina

E adesso si teme il default. Sarebbe il terzo dalla fine del 2001. I titoli che garantiscono gli investitori contro tale rischio si sono impennati dai circa 1.000 punti di una settimana fa ai 2.777 di mercoledì. Ciò corrisponde a una probabilità attesa di fallimento del 46% entro un anno e di oltre l’80% entro 5 anni. Un pessimo biglietto da visita per Christine Lagarde, che si accinge ad assumere la presidenza della BCE dall’inizio del prossimo novembre.

La francese è stata l’artefice dell’ultimo pacchetto di salvataggio in favore dell’Argentina, varato nel 2018 e che ha stanziato 56 miliardi di dollari, l’importo più elevato di sempre mai sborsato dal Fondo Monetario Internazionale con un unico piano. Come sempre, gli aiuti sono arrivati in cambio di riforme, che all’impatto hanno avuto gli effetti collaterali previsti, a causa del taglio della domanda interna richiesto per ridurre sia il deficit fiscale che il disavanzo delle partite correnti, quest’ultimo arrivato al 5% del pil.

La stessa Lagarde ha dichiarato che l’istituto avrebbe “sottovalutato i problemi dell’Argentina”. La verità è che la donna si è imbarcata in un’operazione a sostegno della presidenza Macri, che rischia di tradursi in un boomerang politico e finanziario per Washington. Sì, perché che si trattasse di un fallimento annunciato lo aveva segnalato la storia argentina. Quello dello scorso anno è stato il 22-esimo piano di salvataggio in favore di Buenos Aires negli ultimi 60 anni. Ad eccezione di pochissimi anni, l’Argentina ha sempre vissuto sin dalla fine del peronismo sotto l’assistenza finanziaria dell’FMI e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Argentina senza speranza, mercati nel panico

In gioco la credibilità della BCE

Non che siano sbagliate le ricette dell’istituto, semmai il governo non è mai parso in grado di tradurle in politiche stabili e ogni salvataggio ha esitato nel concreto instabilità politica, rabbia sociale e sfiducia dei mercati verso la capacità del paese di uscire dalla sua crisi cronica. E’ stato così anche stavolta, con la differenza che rispetto ai precedenti 21 piani di assistenza, qui l’FMI ci aveva scommesso alla grande, sborsando risorse gigantesche. Lagarde si è mostrata, quindi, perdente nell’azzardo e questo dopo che aveva pasticciato con la Grecia, sebbene verso Atene abbia segnalato posizioni assai più realistiche di quelle dell’Eurozona, benché ne dica la propaganda anti-FMI.

Per la BCE non sarà un fatto da nulla. Che al suo timone vi sia una personalità sconfessata dagli esiti dei due principali salvataggi internazionali degli ultimi decenni la direbbe lunga sulle sue effettive capacità di gestire situazioni critiche in maniera oculata e con esiti positivi. C’è in gioco la credibilità della nostra banca centrale sui mercati, i quali potrebbero farsi passare per la testa di testare il piano anti-spread varato dall’uscente Mario Draghi nel 2012 per valutare fattivamente come reagirebbe la francese, reduce da due grandi sconfitte nel corso del suo ottennato all’FMI. E speriamo che non vi sia due senza tre.

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