Con questi venti di reflazione, investire in oro è una decisione saggia? Parrebbe di sì. Il tasso di crescita dei prezzi al consumo negli USA è aumentato del 4,2% annuo in aprile. Nell’Eurozona, è salito al 2% a maggio, con la Germania al 2,5%. Eppure, le quotazioni del metallo quest’anno registrano un lieve calo. Avevano aperto il 2021 a ridosso dei 1.900 dollari l’oncia e ancora si aggirano sui 1.890 dollari. E dai massimi storici toccati nell’agosto scorso, cioè sopra i 2.000 dollari, risultano in deciso calo.

Invece, un altro metallo sta correndo. Il rame si è apprezzato quest’anno del 28%, pur scendendo dai massimi da 10 anni a questa parte toccati a maggio. Il boom è trainato dall’alta domanda, dati gli impieghi industriali sempre più diffusi, specie grazie alla produzione di pannelli solari o di auto elettriche. A sua volta, questa impennata dei prezzi si traduce in un rincaro di prodotti di largo consumo, tra cui i dispositivi elettronici.

E, dunque, perché non investire in oro, se è vero che l’inflazione si stia surriscaldando un po’ in tutto il pianeta? Esso è da secoli considerato un bene rifugio, a protezione della perdita del potere di acquisto. Tuttavia, secondo gli analisti di Goldman Sachs esisterebbe una distinzione da operare tra “buona” e “cattiva” inflazione. La prima si avrebbe quando i prezzi aumentano per l’accresciuta domanda. Il rame e le altre materie prime risentirebbero proprio di questo trend.

Investire in oro con l’inflazione “cattiva”

Poiché le “commodities” sono asset spot, i loro prezzi risultano dall’incontro tra domanda e offerta e proteggerebbero nel breve termine contro accelerazioni inattese dell’inflazione. Viceversa, l’oro protegge contro quell’inflazione (“cattiva) derivante dalla contrazione dell’offerta, magari a seguito di tensioni geopolitiche. Per farvi un esempio, negli anni Settanta la crisi petrolifera provocata dal taglio della produzione di greggio da parte dell’OPEC provocò l’impennata dell’inflazione e una corsa all’oro.

Va detto, però, che anche in questi mesi siamo in presenza di un’inflazione “cattiva”. La carenza di chip sta portando al rallentamento della produzione di telefonini, elettrodomestici e auto elettriche, tanto per citare gli esempi più clamorosi. Il solo comparto automotive perderà quest’anno più di 100 miliardi di dollari di fatturato per ciò. Evidentemente, però, il mercato non si mostra preoccupato, scontando un calo dell’offerta temporaneo e forse destinato a cessare con le riaperture definitive delle attività dopo l’allentamento delle restrizioni anti-Covid.

Ecco spiegato perché il prezzo dell’oro non si scalda, mentre quello del rame sì. E sempre Goldman Sachs invita a rifuggire da alcuni automatismi mentali, come quello per cui il comparto azionario proteggerebbe contro l’inflazione. Non è sempre così, avverte. Se l’inflazione si spinge al punto da lasciare presagire un rialzo dei tassi, le borse cessano di crescere. Più in generale, se fossimo in presenza di un’inflazione “cattiva”, i profitti per le società quotate non aumenterebbero, per cui non vi sarebbe motivo perché i loro titoli si apprezzassero. Diverso il caso di un’inflazione trainata dalla domanda. In questo caso, s’intravedrebbe un aumento dei profitti.

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