Se durante la pandemia abbiamo notato il rialzo moderato dei prezzi di generi alimentari e, più in generale, dei beni di prima necessità, sappiate che forse il rischio rincari non è affatto passato. Malgrado il deciso rallentamento nell’Eurozona dopo il boom di un anno fa, si moltiplicano i segnali negativi in tal senso. Ieri, le quotazioni del mais sui mercati hanno toccato il livello più alto da otto anni a questa parte. Da inizio anno, segnano un rialzo di oltre il 46%.

E non si tratta di un andamento isolato. La farina è salita anch’essa del 17% quest’anno, così come il costo del legname del 63%. In quest’ultimo caso, si tratta di nuovi massimi storici. Il boom dei prezzi alimentari di accompagna in questa fase a quello di numerose materie prime. Il petrolio guadagna quest’anno il 30% e si è riportato da qualche mese ai livelli pre-Covid, con il Brent in area 65 dollari. Il prezzo del rame è salito nel frattempo del 26% a 9.760 dollari ieri, il livello più alto da 10 anni. Stabile da inizio anno l’argento, le cui quotazioni segnano, però, un rialzo su base annua del 76,5%.

Alcuni rialzi di prezzi alimentari sono legati a fattori contingenti. Come la siccità di North e South Dakota, che non lascia prevedere buoni raccolti di mais. E neppure nel Sud America ci si attende un raccolto record. Inoltre, il governo argentino valuta di inasprire i dazi sulle esportazioni, una politica volta a favorire la vendita di beni di prima necessità sul mercato domestico. Ad ogni modo, non vi sfugga che il quadro d’insieme che si sta delineando sia piuttosto chiaro.

Prezzi alimentari e rischio tensioni sociali

L’eccesso di liquidità sui mercati sta spingendo gli investitori a rifugiarsi sulle materie prime e persino sul cibo per impiegare i capitali in maniera fruttifera e con rischi contenuti.

I prezzi alimentari stanno salendo, oltretutto, anche in conseguenza dei rincari delle materie prime. Se il petrolio costa di più, anche le coltivazioni nei campi diventano più onerose e così successivamente il trasporto delle merci. Una situazione che somiglia tantissimo a quella che si venne a creare dopo la crisi finanziaria del 2008-’09. Allora, tra il 2010 e il 2011 diversi prezzi alimentari e di materie prime sui mercati internazionali esplosero, provocando destabilizzazioni geopolitiche di cui ancora oggi paghiamo lo scotto.

Le Primavere Arabe scaturirono proprio dalle rivolte sociali in vari stati del Nord Africa, a partire della Tunisia, dilagate subito dopo nel Medio Oriente in protesta contro il carovita. Rispetto ad allora, se vogliamo, la situazione odierna è nettamente peggiore. Dieci anni fa, i postumi della crisi globale erano perlopiù visibili presso le economie avanzate, mentre la pandemia ha colpito più simmetricamente tutti. E, soprattutto, le banche centrali hanno inondato i mercati di molta più liquidità e al termine di un decennio già di fortissimo allentamento monetario. In sostanza, i prezzi alimentari e delle “commodities” oggi dispongono di margini di ulteriore crescita ben maggiori di quanto non avvenne nel biennio 2010-’11.

Le condizioni in cui versa gran parte dello stesso mondo avanzato sono molto critiche. Esistono categorie che non riescono a lavorare da oltre un anno, a causa delle restrizioni anti-Covid. I tassi di disoccupazione reali sono notevolmente superiori a quelli ufficiali, con la conseguenza che il disagio sociale statisticamente risulta sottostimato. Ma se alla penuria di reddito si dovesse sommare il boom dei prezzi alimentari, la miscela diverrebbe esplosiva per i governi. Il malcontento rischierebbe di montare a livelli non sostenibili, né vi sarebbe la possibilità di rispondere ricorrendo a dosi di ulteriore indebitamento. Per questo, i grafici sui futures delle materie prime dovrebbero allarmarci. Di questo passo, rischiamo la rivolta sociale.

Ironia della sorte, le banche centrali riuscirebbero formalmente a centrare i loro obiettivi d’inflazione. Ma sarebbe una grottesca vittoria di Pirro.

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