L’amministrazione Biden vorrebbe aprire il cantiere fiscale nelle relazioni internazionali, introducendo l’imposta minima mondiale sugli utili delle imprese. Il piano varato dal segretario al Tesoro, Janet Yellen, prevede di aumentare la “corporate tax” dal 21% al 28% negli USA. L’amministrazione Trump la aveva abbassata dal 35% al 21%. Inoltre, sugli utili maturati dalle società americane all’estero si pagherebbe un’aliquota non inferiore al 21%.

Ma è l’ipotesi sull’imposta minima mondiale a fare discutere fuori dai confini nazionali. In sostanza, gli stati dovrebbero accordarsi su un prelievo fiscale non inferiore a una data percentuale.

Non è la prima volta che se ne discute. L’Unione Europea faticosamente da anni cerca di armonizzare le sue aliquote sugli utili d’impresa, al fine di contenere l’erosione delle basi imponibili. Ad opporsi sono chiaramente gli stati con la minore pressione fiscale sulle imprese, come Irlanda e Olanda. Essi temono di perdere quella capacità di attrazione dei capitali (e di entrate fiscali), che deriva proprio dalla bassa imposizione.

Come funzionerebbe l’imposta minima sulle imprese

Come funzionerebbe un’imposta minima mondiale? Uno stato aderente all’accordo preleverebbe dall’impresa una porzione di utili non inferiore all’aliquota fissata. E ciò anche qualora la legislazione fiscale nazionale consentisse all’impresa di pagare di meno. In questo modo, verrebbe meno la convenienza a sfruttare le numerose scappatoie esistenti per spostare gli utili presso i cosiddetti “paradisi fiscali”. Una tecnica molto seguita è quella di trasferire in capo a una società madre con sede in uno stato dalla tassazione leggera buona parte dei ricavi realizzati in uno stato dalla tassazione più pesante.

Ad esempio, una multinazionale che operi in Italia eviterebbe di pagare l’aliquota del 24%, trasferendo i ricavi alla società madre con sede in Irlanda, dove l’aliquota risulterebbe solamente del 12,5%. E a sua volta potrebbe pur sempre sfruttare le maglie larghe della legislazione irlandese per trasferire gli utili in qualche paradiso fiscale, sottraendosi quasi totalmente alla tassazione.

Con l’imposta minima mondiale, ciò non sarebbe più possibile. Se sul piano internazionale si concordasse di tassare gli utili d’impresa per non meno del 15%, la multinazionale finirebbe per pagare come minimo tale aliquota. Forse non a caso, l’OCSE ha di recente discusso l’ipotesi di un’aliquota minima del 12,5%, coincidente con quella imposta da Dublino.

Sembra un’idea geniale, ma non lo è affatto. Anzitutto, tecnicamente sarebbe di attuazione complicata. L’impresa pagherebbe le imposte dove opera o dove ha sede fiscale? Nel primo caso, andrebbero riviste tutte le legislazioni nazionali, un processo tutt’altro che agevole. Nel secondo, l’incentivo all’elusione fiscale a favore dei paesi con aliquote più basse non verrebbe meno. Una società troverebbe ugualmente conveniente far risultare gli utili in Irlanda, anziché in Italia. Con l’imposta minima mondiale pagherebbe eventualmente un po’ di più di quanto ad oggi richiede Dublino, ma pur sempre di meno di quanto pretenderebbe lo stato italiano.

Vincerebbero gli stati inefficienti

Ma il problema è più profondo. Ci sono stati che riescono a tassare poco i redditi, perché hanno bassa spesa pubblica e ciononostante riescono a garantire ai cittadini servizi di qualità. Sono un modello di efficienza da imitare. L’Olanda è uno di questi. Sarebbe corretto che fossero costretti ad accettare un’imposta minima globale più alta dei loro livelli di tassazione, al fine di favorire stati meno efficienti? Se finora la concorrenza fiscale sul piano internazionale ha spinto i governi a cercare di ridurre gli sprechi per limitare la spesa e il prelievo delle imposte, d’ora in avanti accadrebbe il contrario. I governi non avrebbero più alcuno stimolo a gestire le finanze statali con oculatezza, scaricando le proprie inefficienze sugli stati più parsimoniosi.

E chi fisserebbe l’imposta minima mondiale? Un accordo intergovernativo o qualche altro organismo? E i Parlamenti cosa ci starebbero a fare? Storicamente, nascono proprio per limitare i poteri impositivi del sovrano. Verrebbero svuotati di ulteriore significato, trasferendo in capo ad accordi internazionali potestà proprie. E siamo sicuri che questi accordi sarebbero vincolanti per tutti o rischiamo il classico boomerang? Se anche tutto l’Occidente si mettesse d’accordo su una data imposta minima mondiale sugli utili d’impresa, resterebbe a disposizione delle multinazionali una parte del pianeta in cui ripararsi per minimizzare il carico fiscale.

E’ la stessa storia della Tobin tax, da sempre un fallimento per il semplice fatto che la finanza sposta le negoziazioni con un clic del mouse verso quei mercati su cui il balzello non si paga. Finiremmo per favorire l’Asia, dove le adesioni a ipotesi di questo tipo sarebbero praticamente nulle. L’Occidente incentiverebbe ancora di più lo spostamento delle sedi fiscali presso ignote isole del Pacifico, e non solo. L’imposta minima mondiale si trasformerebbe in un’imboscata tesa agli stati più parsimoniosi per favorire gli spendaccioni.

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