Il 22% dei lavoratori dipendenti in Italia, qualcosa come quasi 3 milioni e mezzo di occupati, risulterebbe percepire meno di 9 euro lordi l’ora, la soglia individuata dal Movimento 5 Stelle per fissare il salario minimo legale. Si tratterebbe di un livello di poco inferiore ai 9,19 euro minimi l’ora, che da quest’anno dovranno essere corrisposti ai dipendenti in Germania. L’Italia fa parte di un piccolo gruppo di paesi dell’Unione Europea a non avere introdotto in via legislativa il salario minimo, assieme a Danimarca, Finlandia, Austria, Svezia e Cipro.

Si può ben dire che saremmo in buona compagnia, se è vero che praticamente nemmeno la Scandinavia, da molti ritenuta un modello di riferimento per il mercato del lavoro (e non solo), lo preveda.

In Europa, si va dagli 1,62 euro della Bulgaria ai quasi 12 del Lussemburgo, rispecchiando salari e stipendi assai diversi da stato a stato. Concentrandoci sui paesi più grossi, notiamo come il salario minimo legale incida mediamente per il 45% di quello medio. Si va dal 40% in Spagna a oltre il 47% in Francia, passando per il 41,5% in Germania e quasi il 45% nel Regno Unito. E in Italia, quanto inciderebbe, nel caso fosse introdotto e fissato a 9 euro l’ora?

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Gli stipendi in Italia

Per capirlo, dovremmo incrociare i dati del JP Salary Outlook 2018 sulle retribuzioni medie degli italiani e quelli Istat sulle ore settimanali effettivamente lavorate. In Italia, il reddito annuo lordo medio di un lavoratore dipendente è stato lo scorso anno di 29.380 euro. Considerando che i giorni lavorativi in un anno ammontano a circa 250 e che mediamente risultano lavorate 35 ore a settimana nel caso dei dipendenti, si ottiene che il salario medio orario si attesterebbe sui 16,80 euro lordi. Dunque, il salario minimo di 9 euro inciderebbe per il 53,6% di quello medio, una percentuale decisamente superiore a quella che si riscontra presso le altre grandi economie europee e che sarebbe potenzialmente fatale per il mercato del lavoro, in quanto innalzerebbe evidentemente il costo sostenuto dalle imprese per pagare i dipendenti meno qualificati, oltre che giovani e donne, i quali notoriamente percepiscono buste paga meno pesanti rispetto ai colleghi più anziani e maschi.

C’è, poi, un fattore geografico di cui tenere conto. Lo stipendio in Italia non è uguale dappertutto, ma varia molto da nord a sud. Nel Settentrione, si attesta sui 30.627 euro, pari a circa 17,50 euro per ogni ora effettivamente lavorata, scendendo a 28.598 euro al Centro (16,34 all’ora) e ai 26.100 del Meridione (15,35 euro all’ora). Ciò ci porta a stimare a circa il 51,4% il peso che avrebbe il salario minimo legale di 9 euro al nord, al 55,1% nelle regioni centrali e al 58,6% al sud. E se facciamo l’ulteriore distinzione tra operai e impiegati, notiamo quanto segue: al nord, i primi percepiscono mediamente 25.715 euro (14,69 l’ora), al centro 24.044 (13,74) e al sud 23.434 (13,78). Questo significa che il salario minimo legale a 9 euro sarebbe pari al 61,3% di quello medio percepito dagli operai al nord e a circa il 65,5% al centro e al sud.

Passando agli impiegati, le retribuzioni medie vanno dai 31.781 euro al nord, ai 30.340 euro al centro e scendono a 28.162 euro al sud, per cui il salario minimo varrebbe quasi il 50%, il 52% e oltre il 54% rispettivamente. In altre parole, i maggiori rischi graverebbero sul lavoro operaio e, in particolare, nel Meridione, dove le imprese potrebbero non essere in grado di sostenere il costo minimo per dipendente relativamente alto, fissato per legge. Si consideri che parliamo anche della parte dello Stivale a maggiore incidenza di lavoro nero, per cui bisognerebbe riflettere seriamente prima di sbizzarrirsi con proposte apparentemente positive per i lavoratori, ma che finirebbero per danneggiarli. L’Istat, ad esempio, ha calcolato che 2,9 milioni di occupati godrebbero di un aumento retributivo medio lordo di 1.073 euro per un monte-salari in crescita di 3,2 miliardi.

Trattasi di un aggravio dei costi a carico delle imprese, che non sembrano nelle condizioni ideali oggi per sostenerli.

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Gli effetti collaterali del salario minimo

E il salario minimo di 9 euro appare deleterio anche per un’altra ragione: finirebbe paradossalmente per spingere al ribasso le retribuzioni. Perché? Anzitutto, indicherebbe alle imprese una soglia di riferimento, a cui nel tempo esse si adeguerebbero, anche uscendo dalla contrattazione collettiva, nel caso in cui trovassero le condizioni imposte da questa meno convenienti. Inoltre, se il salario minimo elevasse il costo del lavoro per una parte dei dipendenti, l’aggravio verrebbe verosimilmente sterilizzato gradualmente dall’impresa ai danni del resto del personale. Non essendo possibili veri e propri tagli, magari si aumenterebbero gli altri salari e stipendi a ritmi più lenti, con la conseguenza che si registrerebbe una sorta di appiattimento retributivo, tutt’altro che incentivante la produttività. Già oggi, ad esempio, gli stipendi dei lavoratori italiani appaiono troppo poco differenziati tra livello e livello d’inquadramento, nonché all’interno di ciascuno di esso. L’estrema sindacalizzazione a cui soggiacciono i contratti nelle grandi aziende private è andata a discapito di una politica retributiva premiante la produttività, per cui un po’ tutti tendono a percepire stipendi sostanzialmente simili, che siano molto produttivi o meno.

L’appiattimento salariale ebbe la sua origine in Italia negli anni Settanta, vuoi a seguito dell’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori con annesse rigidità contrattuali prima inesistenti, vuoi anche per l’introduzione della scala mobile, un meccanismo di indicizzazione automatico di salari e stipendi, attraverso i cosiddetti punti di contingenza fissati in misura decrescente rispetto ai livelli retributivi. In meno di un decennio, il mix tra scala mobile e alta inflazione finì con rendere le buste paga dei dipendenti un po’ tutte uguali, indipendentemente dai livelli e dalle categorie professionali di appartenenza.

Le conseguenze per il nostro mercato del lavoro furono e continuano ad essere nefaste, disincentivando alla produttività, alla formazione e alla specializzazione. Il salario minimo non farebbe che acuire proprio tali criticità.

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I contratti collettivi garantiscono già salari adeguati

La Germania ha iniziato a introdurlo solo nel 2015 e come mezzo di scambio tra i due schieramenti al governo, su pressione dei socialdemocratici. Lo ha fatto gradualmente e in un mercato del lavoro avviato già al tempo alla piena occupazione, con stipendi medi nettamente superiori a quelli italiani. L’Italia vanta uno dei più bassi tassi di occupazione nel mondo occidentale, davanti solo a paesi come Grecia e Turchia con il suo 58,5% nel 2018, quando in Germania si supera il 75%. E al sud, si scende persino sotto il 50%. Come si può pensare di fissare una ulteriore rigidità sul mercato, quando il nostro problema strutturale da decenni è proprio il disincentivo ad assumere dato dalle normative fiscali e sul lavoro? Davvero pensiamo che un imprenditore al sud possa permettersi di pagare un lavoratore giovane o non specializzato sopra i 18.000 euro lordi annui richiesti, quando il pil pro-capite in quelle regioni si attesta su livelli pari o inferiori a tale importo? Sarebbe come immaginare di aumentare la ricchezza prodotta per legge, ma siamo nell’utopia più assoluta.

Infine, notiamo che l’Italia, pur sprovvista di uno strumento come il salario minimo legale, vanta quello della contrattazione collettiva, che nei fatti copre la stragrande maggioranza dei lavoratori occupati e consente loro di percepire retribuzioni non solo superiori ai 9 euro lordi l’ora, ma persino sopra la soglia di povertà in percentuale decisamente superiore agli altri stati europei, compresi i più avanzati. In altre parole, più che fare copia e incolla dalle altre esperienze legislative, dovremmo cercare di fare rientrare il maggior numero dei lavoratori oggi scoperti nei CCNL. Come? Agevolando le imprese di minuscole dimensioni a ingrandirsi da un lato e rafforzando la contrattazione aziendale dall’altro, così da renderla più adeguata alle reali condizioni specifiche e dei territori. Se fissiamo, per ipotesi, a 15 euro l’ora le retribuzioni in un dato comparto, va da sé che un’impresa del nord troverebbe molto più agevole di una del sud aderirvi, mentre quest’ultima finirebbe o per uscire dalla contrattazione collettiva o per non entrarci, nel caso ne fosse fuori.

Si potrebbe giustamente eccepire che i contratti collettivi non si siano mostrati in grado di garantire stipendi adeguati alla gran parte dei lavoratori. E il confronto con i dati europei dimostrerebbero proprio quanto più leggere siano le buste paga nel nostro Paese. Vero, ma c’entra poco e niente la legislazione in sé. Gli stipendi italiani rispecchiano la stagnazione della produttività della nostra economia negli ultimi decenni, a sua volta conseguenza di un mercato del lavoro gravato da un cuneo fiscale tra i più pesanti al mondo, nonché da una struttura produttiva non al passo con i tempi e all’assenza di riforme di sostegno alla crescita nel medio-lungo periodo. Anziché curare i mali all’origine dei bassi stipendi, il salario minimo legale offrirebbe una risposta immediata e quanto mai dannosa, come se si costruisse una casa partendo dal tetto.

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