Siamo agli inizi della campagna elettorale, eppure ne abbiamo già sentite parecchie dai vari leaders politici. Dall’abolizione del canone Rai alla cancellazione della legge Fornero, dalle pensioni minime a 1.000 euro al mese all’eliminazione delle tasse universitarie, passando per i vari redditi di cittadinanza/dignità/inclusione che dir si vogliano. L’ultima promessa di rilievo mediatico l’ha lanciata il segretario del PD, Matteo Renzi, in vistoso e costante calo di consensi per i sondaggi, tanto da sembrare essere uscito dalla corsa per Palazzo Chigi, quest’ultima ristretta in apparenza a centro-destra e Movimento 5 Stelle.

(Leggi anche: Cancellare la legge Fornero non è lesa maesta, purché non si torni al passato)

In scia alla disperazione per quella che al momento sarebbe una partita perdente, Renzi ha pensato bene di smuovere le acque negli ultimi giorni, almeno nella speranza di tornare a far parlare di sé e mostrare alla base di esistere ancora. E così, se sul finire della settimana scorsa ha lanciato l’idea di abolire il canone Rai, aumentando il tetto pubblicitario per la TV pubblica e finanziando quest’ultima attingendo alla fiscalità generale, stavolta il tentativo di recuperare il terreno perduto avviene su quello abbastanza delicato del lavoro: introdurre il salario minimo legale di 9-10 euro all’ora.

Renzi, si sa, ha legato negli anni la sua immagine al Jobs Act, un provvedimento che ha reso più flessibili le assunzioni stabili e temporaneamente anche incentivandole. Contrastato dalla sinistra e dai sindacati, l’ex premier ha sempre difeso la legislazione sul tema con tenacia, ma adesso il voto incombe ed è proprio da quelle parti che sembra essersi scoperto troppo, non riuscendo più ad attirare consensi alla sua destra, a causa del recupero di voti da parte di Silvio Berlusconi. E con la ricostituzione di un’area più antagonista capeggiata dal presidente del Senato, Pietro Grasso, a puntare sul voto giovanile con la proposta allettante di azzerare le tasse universitarie a tutti, serve ribattere con promesse altrettanto entusiasmanti.

La situazione in Europa

Il salario minimo legale esiste in 22 stati europei, per cui quella di Renzi non sarebbe una proposta in sé campata in aria. Tuttavia, sembra fuori senno la dimensione di tale retribuzione, al di sotto della quale non si verrebbe assunti. Un esempio? Il Lussemburgo figura attualmente come l’economia con il più alto salario minimo orario a 11,12 euro. Su base mensile, un contratto full-time non potrebbe attestarsi al di sotto dei circa 1.922 euro al mese. Sembra alto, ma la retribuzione media mensile di un lavoratore lussemburghese viaggia sui 4.400 euro.

La Germania, dove la disoccupazione è scesa al minimo post-riunificazione del 5,5% e dove lo stipendio medio lordo mensile è di 3.765 euro, ha introdotto dall’anno scorso il salario minimo orario di 8,50 euro, pari a circa 1.470 euro mensili per un contratto full-time. In Francia, un lavoratore percepisce mediamente quasi 3.100 euro lordi al mese e il salario minimo orario è mediamente di 10 euro all’ora e quello mensile di 1.460 euro. In Spagna, a fronte di una retribuzione media lorda di poco più di 2.170 euro, il salario minimo per legge non può essere inferiore a 3,97 euro, ovvero di 764 mensili. (Leggi anche: Il salario minimo in Germania farà crescere il lavoro nero)

Proposta di Renzi spropositata

Facendo due conti e restando nell’Eurozona, scopriamo che la Germania ha imposto un salario minimo pari a meno del 40% della retribuzione media vigente, la Francia ne ha uno al 47%, il Lussemburgo al 44% e la Spagna al 35%. Ed è logico che lo stato imponga salari minimi relativamente bassi, altrimenti verrebbe disincentivata l’occupazione pagata meno dalle imprese, ovvero sostanzialmente quella poco qualificata. In Italia, la proposta di Renzi, se mai venisse realizzata, porterebbe il salario minimo mensile imposto per legge a livelli sostanzialmente in linea a quelli medi già in vigore, ovvero il primo verrebbe fissato a circa il 100% del secondo.

Si consideri che mediamente un operaio italiano percepisce meno di 24.000 euro lordi all’anno e che esso rappresenta quasi la metà dell’intera platea dei lavoratori.

Dunque, la proposta renziana appare spropositata e rischiosa, perché finirebbe per provocare al nostro già malato mercato del lavoro danni immensi, che il Jobs Act aveva cercato di riparare in principio con un certo coraggio, per quanto insufficiente. Qui, non si strizza l’occhio solo al popolo dei call centers, che lamenta retribuzioni da terzo mondo, bensì a milioni di lavoratori, spinti a convincersi che il problema del loro reddito magro in busta paga dipenda dall’avidità dei loro datori di lavoro, quando è lo stato a succhiare loro gran parte del salario con un cuneo fiscale tra i più alti al mondo. Facile fare campagna elettorale con i soldi degli altri, più onesto e difficile sarebbe impegnarsi nel dimagrire il peso della tassazione (e dello stato), alzando così le retribuzioni nette degli italiani. Ma sembra che il Renzi versione 2018 abbia esordito in versione antitetica rispetto all’ultima sua immagine di fine 2017: da fautore del canone Rai in bolletta per tutti è passato a propugnatore della sua abrogazione; da sostenitore della flessibilità per creare lavoro si è trasformato in un sindacalista alla Camusso contro le imprese. Da qui al 4 marzo, chissà dove arriveremo. (Leggi anche: Canone Rai in bolletta è solo fuffa per spaventare Berlusconi)

[email protected]