Illuminante come poche volte accade il Bollettino mensile della BCE, in cui si rimarca una specificità negativa tutta dell’Italia, unico stato dell’Eurozona ad avere bisogno di un avanzo primario per stabilizzare il rapporto debito/pil. Questo, spiega l’Eurotower, è dovuto al fatto che la differenza tra tasso d’interesse e tasso di crescita dell’economia è positivo, mentre in tutti gli altri 18 stati resta negativo, per quanto sia atteso in aumento in 12 di essi, ma restando pur sempre sottozero.

Vediamo cosa significhi e quali implicazioni concrete abbia. Il debito pubblico di uno stato viene monitorato in relazione alle dimensioni della sua economia, cioè il pil. Per questo, si utilizza il rapporto debito/pil per capire il livello di indebitamento e le sue variazioni nel tempo. In Italia, ad esempio, si attesta sopra il 130% contro una media europea di circa l’85%. Ciò vuol dire che per ogni 1 euro all’anno di ricchezza prodotta, esistono 1,3 euro di debiti contratti dal settore pubblico.

Debito pubblico, come allungare le scadenze con l’aiuto europeo senza pagare più interessi

Tralasciamo in questa sede le critiche di chi nota da anni come tale rapporto sia in sé fuorviante, mettendo in relazione uno stock con una variabile di flusso. Concentriamoci sul contenuto del Bollettino. Il rapporto debito/pil varia in base a come si muovano il numeratore e il denominatore. Il primo aumenta per effetto sia degli interessi pagati sullo stock pregresso, sia dell’eventuale nuovo deficit contratto, detto anche disavanzo primario, che è la differenza (negativa) tra entrate e spesa. Il secondo aumenta, invece, se si ha un tasso di crescita nominale positivo, dato dalla somma tra pil reale e inflazione.

Bassa crescita e peso degli interessi

Per almeno stabilizzare il rapporto debito/pil, dovremmo far sì che il denominatore cresca non più del denominatore. Questo accade quando la somma tra la spesa per interessi e il saldo primario (deficit o avanzo) risulta non superiore all’aumento del pil nominale.

Lo scorso anno, ad esempio, l’Italia ha sborsato quasi 68 miliardi per pagare gli interessi sul debito, mentre la crescita nominale del pil è stata di appena 30 miliardi. In pratica, il debito ci è costato mediamente il 3% (68 su 2.317 miliardi), mentre il pil è cresciuto dell’1,7% (30 su 1.724 miliardi). Per cercare di stabilizzare il rapporto e, anzi, per segnalare di volerlo almeno ridurlo un po’ abbiamo avuto bisogno di chiudere il bilancio con un avanzo primario di quasi il 2%.

Attenzione, perché l’Italia mostra avanzi primari dall’inizio degli anni Novanta e ciononostante non riesce ad abbattere il suo grado di indebitamento. Questo, perché la nostra economia cresce poco e lo stesso numeratore aumenta per effetto di una spesa per interessi che supera i risparmi della Pubblica Amministrazione, generando nuovi deficit. Le due dinamiche non sono slegate. Avanzo primario significa essenzialmente che lo stato preleva dai contribuenti un monte-imposte superiore ai servizi che loro eroga. In altre parole, il settore pubblico contribuisce negativamente all’economia, prendendo con una mano più di quanto dia con l’altra. Ciò finisce per deprimere la crescita, specie in assenza di riforme strutturali.

Perché il deficit al 2% dovrà essere il limite massimo per rassicurare i mercati sul debito pubblico

L’Italia può vantare oggi due primati in Europa, che tra di loro apparentemente fanno a pugni: ha il maggior numero di anni consecutivi di avanzi primari dagli anni Novanta e la maggiore spesa per interessi rispetto al pil. Un paradosso, dato che i risparmi cospicui e costanti della P.A. avrebbero dovuto convincere il mercato a pretendere rendimenti più bassi per acquistare i bond sovrani, mentre oggi scopriamo che la Francia, che nell’ultimo decennio ha litigato parecchio con l’ordine fiscale e continua a segnare disavanzi primari, paga interessi molto più bassi di noi, quasi alla pari della Germania.

Com’è possibile? Il fatto è che la Francia è cresciuta negli ultimi decenni, certo non a ritmi esaltanti, ma è cresciuta. Noi, no. E la stagnazione “secolare” in cui sembra caduta l’Italia si alimenta di quella eccessiva pressione fiscale, tesa a mantenere avanzi primari costanti, la quale impedisce al pil di crescere in linea con le altre grandi economie, finendo per generare timori sulla sostenibilità del debito e, quindi, per tenere alti gli interessi.

Pesano le mancate riforme

Quanto a questi ultimi, in verità, va detto che sul debito di nuova emissione risultano scesi intorno a una media del 2% nell’ultimo anno, un livello compatibile con la pur bassa crescita nominale del pil. Il punto è che continuiamo a pagare interessi più alti sul debito pregresso, specie quello emesso prima che la BCE varasse gli stimoli monetari e azzerasse i tassi. Se i rendimenti dei BTp restassero invariati da qui ai prossimi 4-5 anni, l’intero costo del debito tenderebbe a scendere in area 2%, man mano che l’intero stock fosse rinnovato. Capite, quindi, come sia possibile che la Spagna ci abbia sorpassati di gran lunga, esibendo spread molto più bassi dei nostri. Negli ultimi anni, infatti, la crescita del suo pil nominale è stata mediamente del 4-5%, a fronte di interessi nettamente inferiori, con la conseguenza che il mercato ha percepito la maggiore sostenibilità rispetto al debito italiano.

Per spezzare questo circolo vizioso in cui siamo caduti, servirebbe trovare il modo di rilanciare la crescita, senza impattare negativamente sui conti pubblici. Parliamo di quelle riforme economiche a costo zero, capaci negli anni di generare risultati, come liberalizzazioni, sburocratizzazione, privatizzazioni, taglio delle tasse interamente coperto da riduzioni della spesa, sostegno agli investimenti pubblici tramite tagli alla spesa corrente e un migliore utilizzo dei fondi europei, sostegno alle imprese italiane sui mercati esteri, etc.

Avremmo essenzialmente bisogno, cioè, di riqualificare la nostra spesa pubblica, ad oggi eccessivamente concentrata sull’assistenza. Al contempo, anche il riassetto istituzionale sarebbe più che necessario, in quanto proprio la cattiva governance italiana induce da decenni gli investitori a diffidare dal puntare sulla nostra economia nel lungo termine, essendo percepita la nostra politica come confusa, instabile ed erratica, oggetto di continui smottamenti elettorali e senza una precisa direzione.

La crisi di fiducia verso l’Italia è la maledizione che auto-alimenta il nostri debito pubblico 

Restando sul piano del confronto con la Spagna, non possiamo non notare come negli ultimi 20 anni, dall’ingresso dell’euro ad oggi, Madrid abbia avuto solo 4 premier, l’Italia ben 9, ovvero rispettivamente la media di uno ogni 5 e poco più di 2 anni. Chi investirebbe mai in un paese, in cui non si sa chi governerà tra solo qualche anno e sulla base di quale programma? Nessun confronto possibile con gli altri grandi stati europei: la Germania ha avuto 3 soli cancellieri dal 1999, con Frau Merkel in pianta stabile alla guida del governo da quasi 14 anni; la Francia ha avuto anch’essa tanti governi, ma lì il potere politico-decisionale si concentra nelle mani dei presidenti, che nell’ultimo ventennio sono stati 4; il Regno Unito ha visto passare da Downing Street 4 premier e l’Olanda, quinta economia europea, di capi di governo ne ha avuti solamente 3. A voi le conclusioni!

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