L’ex ministro delle Politiche comunitarie e attuale presidente della Consob, Paolo Savona, ha lanciato l’idea, in sé non originalissima, di utilizzare il Meccanismo di stabilità europeo o ESM per emettere debito pubblico al posto degli stati nazionali dell’Eurozona, al fine di metterli in condizioni di uguaglianza sui costi di rifinanziamento. Il problema nell’unione monetaria continua ad essere lo stesso: lo spread. Dove più e dove meno, il differenziale di rendimento con i titoli tedeschi si mantiene alto.

Nel caso dell’Italia, si è allargato alquanto negli ultimi 10 mesi, raddoppiando con la nascita della maggioranza giallo-verde. Rendimenti maggiori significa spendere di più per gli interessi, ceteris paribus, minacciando i sacrifici compiuti per risanare i conti pubblici. Inoltre, impedisce al governo di allungare le scadenze del debito, arrestando il consolidamento, che appare più che mai indispensabile per generare fiducia sui mercati.

Riserve auree a garanzia del debito pubblico?

A titolo di esempio, oggi un BTp quinquennale costa al Tesoro l’1,76%, un decennale il 2,76% all’anno e un trentennale il 3,68%. La durata residua media dei nostri bond emessi è di 6,8 anni. Se volessimo portarla a 15 anni, dovremmo mettere in conto costi di emissione superiori di circa tre quarti di punto percentuale. Su uno stock di quasi 2.000 miliardi, sarebbero 15 miliardi in più di interessi all’anno, quando già oggi paghiamo la percentuale rispetto al pil più alta d’Europa, anzi di tutto il mondo avanzato. Resta uno scenario obbligato per segnalare ai mercati di essere diventati molto più solidi finanziariamente, perché una cosa sarebbe avere l’esigenza di rinnovare ogni anno la media di un settimo dello stock, un’altra che ne arrivasse a scadenza appena un trentesimo. Non farebbero più paura eventuali tensioni finanziarie e nemmeno il rialzo dei tassi. Di fatto, metà del nostro debito sovrano scadrebbe in media dopo tre decenni e anche solo ipotizzando una crescita nominale del pil di appena il 2,5%, avremmo che tale stock attualizzato varrebbe meno della metà, come se lo abbattessimo di 30 punti di pil.

Prendendo a spunto l’idea di Savona, però, dovremmo ammettere che l’ESM sarebbe di un qualche aiuto, se riuscissimo a trasformarlo in una sorta di emittente sovranazionale di bond garantiti interamente dagli stati membri beneficiari. Il fondo gode del rating massimo assegnato dalle agenzie di valutazione, cosa che ne abbatterebbe enormemente i costi di emissione. Alla Germania e gli alleati del centro-nord d’Europa che temessero che una siffatta soluzione possa portare a una condivisione dei rischi e degli oneri tra gli stati dell’euro, si rassicurerebbe con l’esplicita previsione, come detto, che ciascuno stato membro resterebbe esposto limitatamente al debito emesso in autonomia e per mezzo dell’ESM. In altre parole, se il fondo sovranazionale emettesse titoli per 100 miliardi destinati a soddisfare le esigenze di liquidità dell’Italia, solo il Tesoro di Roma risulterebbe esposto nei suoi confronti per questa cifra. E così anche per gli altri stati.

Come funzionerebbero le emissioni sovranazionali del debito tricolore

Supponiamo che all’ESM fosse affidato il compito gradualmente di emettere bond per un ammontare massimo del 60% del pil di tutti gli stati membri dell’Eurozona che ne facessero richiesta e con scadenze lunghe, per ipotesi mediamente trentennali. Per l’Italia significherebbe godere negli anni, alle attuali condizioni, di 1.000 miliardi di rifinanziamenti a lungo termine, pari alla metà dello stock di debito negoziabile. Ai rendimenti medi attuali degli stati dell’area con rating tripla “A” (Germania, Olanda e Lussemburgo), pagheremmo su queste emissioni la media dello 0,9%, 4 volte in meno. Parliamo di un risparmio massimo potenziale di 27 miliardi all’anno, l’1,5% del pil. Anzi, considerando che l’Italia paga lo 0,9% già per i suoi bond a 3 anni, il risparmio effettivo risulterebbe persino maggiore e a fronte di un allungamento notevole della durata residua del debito.

Vero sarebbe che il mercato potrebbe scartare i bond emessi direttamente da Roma, richiedendo su di essi rendimenti superiori, ma per contro la minore offerta di titoli a medio-breve termine ne ridurrebbe le pretese. S’innescherebbe un circolo virtuoso, per cui l’Italia spenderebbe di meno per rifinanziare il suo debito, potrebbe utilizzare tali risparmi per tendere al pareggio di bilancio e con mercati rasserenati riuscirebbe a varare più facilmente quelle riforme di stimolo alla crescita che attendiamo ormai da decenni. Oltre tutto, l’ESM non ci regalerebbe nulla, perché quei debiti verrebbero pur sempre emessi per conto nostro. Unico possibile neo: i mercati si fiderebbero di un meccanismo, che si limiterebbe a trasferire in capo a un organismo sovranazionale la responsabilità dell’emissione, ma non anche il rischio? Sarebbe, in effetti, come se in banca Tizio richiedesse denaro al posto di Caio, debitore considerato a rischio, avendo come garanzia proprio solo il patrimonio di questi.

Debito pubblico, questione di interessi: ecco come Francia e Germania ci battono sui conti

Per diradare tali dubbi, si potrebbero concedere all’ESM eventuali garanzie di tipo fiscale, come il diritto di prelevare una sostanziosa quota delle entrate tributarie dello stato beneficiario fino al soddisfacimento del credito eventualmente non soddisfatto. E poiché l’Italia non ha mai saltato una sola scadenza in tutta la sua storia, si tratterebbe di una garanzia solo teorica, ma potenzialmente capace di rassicurare gli investitori sulla credibilità del sistema congegnato per trasferire le emissioni in capo all’ente. Lo schema potrebbe funzionare anche con l’apposizione di una semplice garanzia apposta sulle emissioni a lungo termine dall’ESM. E affinché il beneficio risultasse immediato e visibile, sarebbe opportuno che le emissioni garantite o direttamente effettuate dal fondo incidessero per una percentuale relativamente elevata delle scadenze da rifinanziare e in rapporto al pil.

Visto che l’Italia è ogni anno costretta ad emettere bond per oltre il 20% del pil, dovrebbero ammontare a non meno del 10 del pil per 5-6 anni, così da raggiungere in tempi celeri l’obiettivo del 60%. E a quel punto, rispetto ad oggi potremmo confidare su un paio di punti di spesa in meno per interessi sul pil. I conti pubblici chiuderebbero in pareggio, smetteremmo di accumulare debito anche con la bassa crescita e, soprattutto, finiremmo di sfogliare una volta per tutte il lungo libro delle scuse.

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