Quando oltre un anno fa iniziò la crisi delle quotazioni del petrolio, molti analisti la inquadrarono come il tentativo dell’Arabia Saudita di porre fine a un lustro fin troppo positivo per l’industria energetica americana, la quale con lo sfruttamento dello “shale” ha aumentato in questi anni notevolmente la sua produzione, annullando le importazioni nette da Riad e diventando il terzo produttore mondiale. Secondo i dati dell’EIA (“Energy International Agency”), gli USA hanno contributo per 1,6 milioni di barili al giorno nel 2014 all’aumento dell’offerta di greggio sul mercato mondiale, 5 volte in più dell’Iraq.

Naturale che il Regno Saudita abbia voluto ostacolare i piani americani, che rischierebbero altrimenti di scalfire il suo primato. Tuttavia, a un anno di distanza, non possiamo affermare che i sauditi ce la stiano facendo. Le compagnie petrolifere americane hanno tagliato gli investimenti per centinaia di miliardi e ridotto di oltre la metà il numero dei pozzi attivi, ma la loro produzione è ancora quasi ai livelli massimi toccati a metà anno. Al contrario, la Russia ha aumentato le sue estrazioni per contrastare gli effetti del calo dei prezzi, superando l’Arabia Saudita con riguardo alle esportazioni di greggio verso la Cina sin dal maggio scorso. In particolare, Mosca ha inviato a Pechino 3,92 milioni di tonnellate di greggio nel mese, mentre Riad 3,05 milioni. Si calcola che i principali 7 clienti asiatici assorbano più della metà delle esportazioni saudite, ovvero 4,4 milioni di barili al giorno. Resta il fatto che la quota di mercato in Asia si sia ridotta al 23,2%, meno di un quarto. Nei giorni scorsi, l’FMI ha suonato l’allarme per l’intero Medio Oriente, stimando in mille miliardi di dollari le perdite che i paesi produttori di petrolio subirebbero in 5 anni. E l’Arabia Saudita potrebbero esaurire le sue riserve valutarie in un lustro, a questi ritmi.
Solo quest’anno, ha calcolato il Tesoro USA, si registrerà uno spostamento di reddito per 600 miliardi di dollari verso le economie importatrici.      

Offerta petrolio in crescita, nonostante bassi prezzi

A differenza della Russia, che ha attutito il crollo con le quotazioni con il deprezzamento del rublo, il cambio tra rial e dollaro è fissato a 3,75. Ciò impedisce all’Arabia Saudita di aumentare i suoi ricavi (prodotti in dollari) in valuta locale. L’unico modo che ha per cercare di porre un freno al deficit fiscale, oltre che tagliando la spesa pubblica e/o aumentando le altre entrate, è di accrescere la produzione di petrolio, che in effetti è salita di circa 800 mila barili al giorno in un anno, portandosi ai livelli più alti da almeno 32 anni a questa parte. Poiché parliamo, però, del secondo produttore mondiale (primo tra i paesi OPEC), questa strategia sta tenendo bassi i prezzi del greggio. Questi ultimi sono legati al valore del dollaro, valuta in cui sono espressi. L’annuncio di nuovi stimoli da parte della BCE dovrebbe dare il via a una nuova ondata di rafforzamento del biglietto verde, che non farà certamente bene alle quotazioni delle materie prime, in quanto abbassa la domanda dei clienti non americani. A ciò si aggiungano le difficoltà mostrate dalle economie emergenti proprio per la crisi delle commodities e al rallentamento della crescita in Cina, che rappresenta l’11% della domanda mondiale di greggio. Il quadro che ne viene fuori non è incoraggiante per il Regno Saudita, tenendo anche conto che l’Iran si prepara a sbarcare sul mercato a pieno ritmo, dopo la fine delle sanzioni ONU a suo carico e già pratica politiche di sconto per sottrarre alla concorrenza, specie saudita, quote di mercato in Asia. Tra i benefici accordati da Teheran alla Cina e agli altri paesi acquirenti ci sono crediti a medio-lungo termine e spedizioni gratuite.

       

Crisi fiscale saudita non passeggera senza ripresa quotazioni

Si stima che Riad avrebbe bisogno di quotazioni a 106 dollari al barile per tenere il bilancio statale in pareggio. Il calcolo si basa su un livello di produzione pari a 9,7 milioni di barili al giorno. E’ chiaro che se questa aumenta, diminuisce il livello minimo necessario dei prezzi, affinché i conti pubblici del paese siano in equilibrio. E’ appunto quello che sta facendo il governo. Resta il fatto che in appena un decennio, l’incidenza del petrolio sul pil è scesa dal 50% al 30%, mentre le esportazioni di greggio oggi rappresentano il 28,5% del pil dal 49,5% del 2005, e le entrate derivanti dalla produzione e dalla sua vendita ammontano all’81% del totale dello stato, giù da quasi il 90% del quinquennio precedente. Non gioca a favore di Riad nemmeno il precedente di metà anni Ottanta, quando il prezzo del petrolio scivolò  fin sotto i 10 dollari al barile, nonostante i sauditi avessero tagliato abbondantemente la loro offerta. La ripresa definitiva avvenne solo con la guerra in Iraq del 2003. Se è vera la previsione di Citigroup, secondo cui il 2015 rappresenta l’anno della svolta per l’energia nel mondo, venendo meno il ruolo dell’oro nero, gli sceicchi dovranno inventarsi qualcosa per evitare il tracollo finanziario del loro regno.