La Bank of Japan ha confermato ieri i tassi al -0,1% e non ha potenziato gli stimoli monetari, come da previsioni, lasciando invariati a 80.000 miliardi di yen all’anno gli acquisti di bond in Giappone (700 miliardi di euro). Tuttavia, il governatore Haruhiko Kuroda ha sorpreso i mercati, quando ha annunciato di cambiare il target, che d’ora in avanti punterà a rendimenti decennali dei titoli di stato nipponici intorno allo zero, ovvero ai livelli attuali.

Kuroda ha ammesso anche che la quantità di titoli acquistati potrebbe subire variazioni di volta in volta, ma ha smentito un ritiro graduale degli stimoli monetari (“tapering”), considerando che l’economia del paese sembra ancora lontana dal centrare l’obiettivo di inflazione al 2%, visto che a luglio si è avuto un calo tendenziale dei prezzi “core” dello 0,5%.

(Leggi anche: Abenomics a tutto gas)

QE qualitativo per nascondere fallimento QE Giappone?

Da stimoli quantitativi siamo passati, dunque, a quelli qualitativi. La BoJ punta, insomma, a controllare la curva dei rendimenti, concentrandosi sulle scadenze medio-lunghe e non solo su quelle brevi, tipicamente maggiormente manovrabili dalle banche centrali.

Cosa significa un simile cambiamento? La Borsa di Tokyo ha reagito alla notizia con un rialzo del 2%, fatto apparentemente insolito, dato che il messaggio prevalente captato dalla stampa e dagli analisti nel mondo è che la banca centrale giapponese avrebbe iniziato una sorta di ritirata dagli enormi stimoli attuati sin dalla primavera del 2013. Che il mercato abbia frainteso? Non proprio. (Leggi anche: Helicopter money: Giappone pronto)

 

 

 

 

Tassi negativi colpiscono risparmio

Sui listini pesa molto il comparto assicurativo e quello bancario, che negli ultimi tempi stanno trovando sempre più complicato assicurare valore ai rispettivi clienti. In effetti, la mossa della BoJ potrebbe consistere nello stabilizzare i rendimenti a più lunga scadenza, evitando che scendano eccessivamente, comprimendo sia i margini delle banche, sia i redditi dei futuri pensionati.

Letta così, sembrerebbe che Kuroda abbia voluto tendere la mano ai risparmiatori, così duramente colpiti dalla politica dei tassi negativi e dall’enorme quantità di bond acquistati dalla sua banca centrale. In effetti, i rendimenti sovrani in Giappone sono oggi negativi fino ai 10 anni e i titoli a 40 anni rendono meno dello 0,6%.

Fallimento QE Giappone?

E se fosse esattamente il contrario, cioè che Tokyo abbia voluto impedire ai mercati di segnalare il fallimento del suo QE? Già, perché sono bastate poche settimane di indiscrezioni sul mancato potenziamento degli stimoli in futuro da parte della BoJ, che l’intera curva dei rendimenti è cresciuta: i titoli a 20 anni sono passati dallo 0,025% di inizio luglio a quasi lo 0,5%; i trentennali dallo 0,04% allo 0,59%; sul tratto a 40 anni, dallo 0,057% allo 0,63%.

Poiché nuovi stimoli appaiono impossibili – la liquidità sul mercato nipponico è ormai scarsa e diversi big ne stanno uscendo (leggi anche: Grande banca lascia il mercato) – Kuroda potrebbe aver pensato di fissare i rendimenti e non più gli acquisti, in modo da portare il mercato sui livelli desiderati e impedirgli di fungere da termometro dello stato di salute dell’economia.

 

 

 

 

Inflazione Giappone, l’impegno di Kuroda

Nell’Eurozona sarebbe possibile un esperimento del genere? In teoria, no. Lo statuto della BCE vieta a Mario Draghi di perseguire un certo livello di rendimenti per i titoli di stato, cosa che assumerebbe la natura di una monetizzazione mascherata dei debiti sovrani dell’area. Lo stesso dicasi per i tassi di cambio. Dunque, Francoforte non dovrebbe poter copiare la mossa del collega asiatico.

Un’altra potrebbe essere, invece, la misura che i funzionari della BCE metterebbero nero su bianco, come ha fatto ieri la BoJ: l’“inflation overshooting commitment”. Seguendo parzialmente il consiglio del Premio Nobel, Paul Krugman, Kuroda ha non innalzato il target d’inflazione (questo chiede Krugman, leggi anche: Banche centrali puntino a un’inflazione del 3%), ma si è impegnato a lasciare gli stimoli invariati fino a quando il tasso d’inflazione non resterà per un po’ sopra l’obiettivo del 2%.

Questo, perché altrimenti famiglie e imprese potrebbero aspettarsi un ritiro degli stimoli e un rialzo dei tassi non appena la crescita annua dei prezzi si avvicinasse al 2%, ma con la conseguenza di riportare l’economia verso un’inflazione più bassa e tendenzialmente deflativa. Ecco, sul punto si è espressa anche la BCE favorevolmente, ma in maniera piuttosto vaga e informale, anche perché nell’Eurozona un’inflazione media superiore al 2% potrebbe essere il risultato di una crescita dei prezzi anche sopra il 3% in economie solide come la Germania e una intorno all’1% nel Sud Europa. Si rischia così di compromettere la stabilità dei prezzi in parte dell’unione monetaria.